Tentativi di Fuga

Le dure condizioni di vita a cui erano sottoposti i prigionieri all’interno dei lager nazisti durante la seconda guerra mondiale, per quanto brutali e atroci, non riuscirono mai a determinare l’annullamento totale della personalità dei prigionieri, poiché un barlume di speranza, seppur minimo, resisteva negli animi di alcuni di loro; fu proprio questa speranza che permise, in alcune circostanze, di tentare una ribellione o comunque di rifiutare ciò che veniva imposto con la forza.
Primo Levi dà, nel libro Se questo è un uomo, una chiara e dettagliata descrizione della sua permanenza nel lager e, a questo proposito, afferma che: «Nulla più è nostro ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare sì che dietro al nome qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga».
Il 14 ottobre del 1943, nel campo di sterminio di Sobibor, scoppiò una rivolta organizzata da alcune decine di deportati: il piano era stato preparato nelle settimane precedenti, per iniziativa di un ebreo polacco e con l’aiuto di un ufficiale russo, da poco arrivato nel campo. Furono uccise undici SS e alcune guardie ucraine e, anche se quasi tutti i prigionieri che tentarono di fuggire vennero massacrati, una cinquantina circa di loro riuscì a salvarsi. Nei mesi successivi il campo venne raso al suolo, e, nel tentativo di nascondere le prove, trasformato in una finta fattoria.
Fu la consapevolezza di non avere nulla da perdere che spinse i membri del Sonderkommando di Chelmno, uno dei lager adibiti esclusivamente all’eliminazione degli ebrei – ma anche di zingari e slavi – a ribellarsi, avendo capito che il comando del campo aveva dato l’ordine di ucciderli. Nella notte tra il 17 e il 18 gennaio 1945, assediati in una baracca alla quale i nazisti diedero fuoco, i prigionieri combatterono fino all’ultimo: di 47 ribelli, soltanto due riuscirono a fuggire, e furono tra i pochissimi che – in seguito – avrebbero testimoniato l’orrore di questo centro di sterminio.
Una motivazione simile ebbe la più nota tra le rivolte dei Sonderkommando, quella che ebbe luogo a Birkenau il 7 ottobre 1944: quando seppero che i kapò erano stati incaricati di prelevarli per ucciderli, i membri del Sonderkommando del forno crematorio IV, e poi anche quelli del forno II, si ribellarono, combattendo con pietre, asce e armi di fortuna. Tutti i prigionieri che avevano partecipato alla rivolta (circa 250 individui) morirono. Le SS uccisero poi altre 200 persone, sospettate di aver favorito la rivolta; tra di loro, quattro giovani prigioniere ebree, che avevano procurato esplosivo ai deportati.
Ci furono poi anche diversi casi di ammutinamento, come quello che capitò all’interno del campo di lavoro e sterminio di Buchenwald, dove nell’agosto del 1943 undici deportati polacchi che si erano ribellati, rifiutandosi di svolgere il lavoro imposto loro dalle SS, furono uccisi a fucilate; o come quello che ebbe luogo nel campo di Struthoff (in Alsazia), ove, nel giugno dello stesso anno, un gruppo di oltre cento prigionieri sovietici si ammutinò: anche in questo caso tutti vennero uccisi, dopo essere stati torturati.
Nell’aprile del 1943 era scoppiata la grande insurrezione del ghetto di Varsavia, che terminò il 16 maggio dello stesso anno con la distruzione del ghetto e la morte di oltre 55.000 persone. Le notizie di questa rivolta (e di quella del ghetto di Bialystock, dell’agosto ’43) giunsero fin nei campi: a Treblinka, un gruppo di ebrei del Sonderkommando tentò una ribellione, uccidendo alcune SS e provocando un incendio che distrusse in parte il campo; la maggior parte dei prigionieri morì, e solo una decina di deportati riuscì a fuggire. Entro la fine del 1943 il lager di Treblinka, come quello di Sobibor, venne smantellato e camuffato da fattoria.
Tragico, come gli altri di cui si è detto, fu il tentativo di fuga di circa cinquecento prigionieri russi dal blocco della morte del lager di Mauthausen, di cui parla Sergio Coalova nel tabellone a cui questo approfondimento è collegato. Dopo un rastrellamento a tappeto che vide il coinvolgimento attivo degli abitanti del posto e che venne detto “caccia al coniglio”, tutti i fuggitivi, tranne sette, vennero ripresi e uccisi.
Furono pochi, dunque, i detenuti che riuscirono a sottrarsi con la fuga a una situazione inumana; quasi tutti – come si è visto – venivano catturati poco dopo l’evasione e uccisi, di solito, nel piazzale principale del campo, davanti a tutti gli altri deportati. Se, invece, le SS tornavano al campo a mani vuote, non essendo riuscite a prendere i fuggiaschi, sceglievano dal gruppo dei prigionieri rimasti alcune vittime da uccidere all’istante, per punire l’oltraggio subito.
Alcune rivolte scoppiarono quando era ormai giunta la fine del Terzo Reich. È il caso di quella avvenuta nel campo di Ebensee, all’interno del quale, il 5 maggio del 1945, i soldati statunitensi trovarono una situazione irreale: i prigionieri, avendo intuito l’imminente caduta del regime nazista, si erano sollevati, avevano disarmato le SS, ne avevano uccise alcune e avevano imprigionato le rimanenti. Importante è anche ciò che accadde nel lager di Dachau il 29 aprile del 1945: nella mattinata un ristretto gruppo di SS rimaste, a loro insaputa, da sole nel campo, vennero sopraffatte dalla violenza dei detenuti che le immobilizzarono e le uccisero.
I tentativi di ribellione attuati da questi eroici prigionieri non sono molto ricordati per una serie di ragioni: in primo luogo non furono quasi mai delle rivolte di dimensioni enormi e poi si trattò di poche decine di episodi durante tutto l’arco della guerra. Tuttavia questi moti non furono del tutto inutili, se non altro perché sono la chiara dimostrazione del fatto che i deportati mantennero anche nei lager la propria dignità e che non tutti erano disposti a lasciarsi annientare.