Buchenwald

Il campo di concentramento di Buchenwald, istituito nel luglio 1937, fu uno fra più grandi campi della Germania nazista. Prende il nome dall’omonima località, sulla collina dell’Ettersberg, a circa otto chilometri da Weimar, nella regione della Turingia, nella Germania orientale. Fu costruito su una collina ricoperta di una fitta estensione di alberi di faggio (Buchenwald significa letteralmente “bosco di faggi”).

Tra il 1937 e il 1945 il KL di Buchenwald divenne uno dei più importanti campi di concentramento e sterminio nonostante i suoi piccoli inizi. Il 16 luglio 1937, infatti, «un commando di circa 300 deportati, provenienti dal disciolto campo di concentramento di Lichtenburg, presso Lipsia, eresse, con attrezzi primitivi ed insufficienti, le prime baracche del campo di Buchenwald, ricavando il legname dalla foresta di Ettersberg, foresta, che fu a suo tempo prediletta da Johann Wolfgang von Goethe» (le SS lasciarono in piedi l'”albero di Goethe”, sotto il quale il grande poeta amava stare per scrivere le sue opere, all’interno di Buchenwald).

Dopo la sua crescita furono internati in questo campo, un totale di circa 238.980 persone provenienti da trenta nazionalità diverse. Fu tra i lager dove si attuò principalmente lo sterminio tramite il lavoro. Il numero complessivo delle vittime fu di 43.045, secondo alcune fonti, di 56.554 secondo altre, fra le quali 11.000 ebrei.

Il campo, prima denominato Ettersberg, poi Buchenwald, fu istituito in un primo momento come luogo di detenzione preventiva e punizione per oppositori politici del regime nazista, criminali comuni, testimoni di Geova, tre categorie di prigionieri tedeschi. Il primo ad arrivare nel nuovo campo fu un gruppo di 149 persone che giunse a luglio del 1937. Alla fine di quello stesso anno, però, il campo poteva già contare su una popolazione di 2.561 prigionieri.

Fu eretto in un luogo isolato, al di fuori da sguardi indiscreti. Furono costruite cinquanta baracche, circondate da filo spinato elettrificato, vigilate da SS armate di mitragliatrici e dominate dall’enorme ciminiera dei forni del crematorio, situato a poca distanza dall’ingresso principale. Oggi la strada che attraversa il bosco di faggi e che porta al museo di Buchenwald è chiamata Blutstrasse (“via del sangue”), in memoria delle decine di migliaia di prigionieri che qui caddero.

Il campo, ossia il cosiddetto “campo grande”, comprendeva inizialmente tre parti: la zona per le SS, una per i detenuti, un’altra «adibita a zona industriale». L’ampliamento del campo portò alla costruzione di un ospedale, nel 1938, e a ulteriori 17 blocchi, nel 1942, «in una zona adibita a quarantena» e denominata “piccolo campo”. La popolazione concentrazionaria comprese nel tempo non solo uomini, ma anche donne e bambini.

Agli oppositori politici, ai criminali recidivi, ai cosiddetti “asociali” e ai testimoni di Geova si aggiunsero il 23 settembre 1938, prima 2.200 ebrei, deportati dall’Austria, e, immediatamente dopo la notte dei cristalli (Kristallnacht), altri 10.000 che «furono sottoposti ad un terrore brutale» e costretti a lavorare fino a 15 ore al giorno. Prigionieri del campo furono ben presto anche gli omosessuali e gli zingari, dopo la dichiarazione di Himmler del dicembre 1938, nella quale veniva trattata la situazione del popolo romanì di Germania «sotto l’aspetto della loro purezza razziale». A poco a poco, con l’inizio della seconda guerra mondiale vi furono deportati degli stranieri in numero sempre più crescente. Il campo crebbe in brevissimo tempo e dai 37.000 prigionieri del 1943 si passò ai 63.000 all’inizio del 1944. Al momento della liberazione il 95% degli internati non era tedesco.

Dopo il 1943, a Buchenwald e nei suoi complessivi 135 distaccamenti esterni vennero brutalmente sfruttati, per l’industria bellica, non solo i detenuti maschi del campo, ma dal 1944 anche alcune donne. I prigionieri erano confinati nella zona nord del campo, nota come campo principale, mentre gli alloggi delle SS di guardia e gli edifici amministrativi erano situati nella parte sud. La prigione, conosciuta anche col nome di “bunker”, era situata nell’edificio di entrata della zona principale. Pur non essendo stato concepito come luogo di sterminio organizzato, vi ebbero luogo uccisioni in massa di prigionieri di guerra e molti internati morirono in seguito ad esperimenti medici ed abusi delle SS. Le impiccagioni e le fucilazioni susseguivano e venivano comminate senza alcun processo anche per futili infrazioni alle rigide regole di vita nel campo.

Essere inviati prigionieri nei campi nazisti equivaleva tassativamente ad essere sfruttati come manodopera schiava prima di eseguire una condanna a morte non pronunciata; anche Buchenwald faceva parte integrante del progetto di sterminio di massa tramite il lavoro-denutrizione organizzato dal regime nazista. Non vi risultano grandi camere a gas in pianta stabile se non qualche locale adibito occasionalmente a tale uso di gasazione; questo perché in questi lager si sterminava principalmente con il lavoro. I prigionieri divenuti larve umane, inservibili ma che ancora non erano morti di sfinimento e consunzione nonostante il massacrante lavoro e la malnutrizione, venivano selezionati e spediti per essere uccisi nei centri di eutanasia del Terzo Reich se non soppressi direttamente nel campo con iniezioni letali, colpi di pallottola alla nuca, impiccagioni ed altri sadici metodi.

Le prime vittime vennero inviate fino al 1940 a Weimar per essere cremate. Nel 1941 si costruì il grande crematorio stabile a Buchenwald.

Questo crematorio era dotato di sei bocche di forno ad alto potere d’incenerimento divise in due grandi forni di tre muffole ciascuno, installati della ditta J.A. Topf und Söhne di Erfurt. I muri del vasto sotterraneo del crematorio erano dotati in alto di ben 48 ganci da macellaio ancora visibili; qui avvenivano esecuzioni per strangolamento ed impiccagione con numerose vittime, ammassate poi sul montacarichi che le portava da qui al piano dei forni. Cosa avvenne in atrocità in questo sotterraneo non è documentato che da pochi testimoni sopravvissuti. Sempre del crematorio troviamo un fornito ambulatorio medico, una sala settoria e una specie di finto misuratore dell’altezza dei detenuti che nascondeva una SS pronta a sparare un colpo alla nuca alla vittima di turno. In questo ambulatorio (come nel blocco 61) venivano praticate ai detenuti selezionati come inutili dai medici SS, iniezioni letali al cuore o in vena contenenti benzina o fenolo.

A gennaio del 1945 con l’avanzata dell’Armata Rossa, il lager divenne l’ultima stazione dei trasporti per l’evacuazione dei campi di Auschwitz e Gross-Rosen. Le marce della morte che condussero a Buchenwald portarono migliaia di prigionieri, tanto che la popolazione degli internati contò in quel periodo ben 86.000 persone, una parte delle quali visse in «condizioni terribili» in una tendopoli.

Poco prima della liberazione, ad aprile 1945, le SS cercarono di sgomberare frettolosamente il campo. Si calcola che, mandati a marciare verso mete incerte fino allo sfinimento, circa 15.000 – 25.000 morirono nella “evacuazione”.

Circa 21.000 prigionieri riuscirono però a non “mettersi in marcia” e a rimanere nel campo, grazie al rallentamento dell’evacuazione organizzato da alcuni resistenti. L’11 aprile 1945, quando il campo venne liberato, le forze di liberazione contarono nel campo di Buchenwald 16.000 internati, 4.000 ebrei e circa 1000 bambini.

«Buchenwald è stato uno dei campi affidati all’autogestione da parte dei “triangoli verdi” cioè dei delinquenti comuni» e fu il campo dove maggiormente fu sperimentato l’annientamento per mezzo del lavoro. All’interno del campo furono trattenuti un grosso numero di prigionieri di guerra russi. Oltre che nella costruzione del campo i deportati furono utilizzati in ben 130 campi e sottocampi esterni. Alcuni detenuti vennero utilizzati come manodopera per gli stabilimenti della BMW, in particolare quello di Eisenach e Abteroda.

I “beneficiari” del lavoro forzato dei denutriti “uomini a strisce blu” non opponevano mai resistenza, né vincoli morali alle pratiche terroristiche delle SS e dei Kapo, rendendosi complici e, talvolta, anche diretti responsabili.

Una caratteristica del campo, che dimostrò il sarcasmo umiliante e l’immoralità dei nazisti, fu quella dei “cavalli cantanti”. I “cavalli”, perché come animali venivano trattati, furono i prigionieri, costretti e minacciati, mentre trainavano carri con carichi pesantissimi, a cantare.

Periodicamente venivano selezionati i prigionieri che erano ancora in grado di lavorare, dunque lo staff delle SS inviava coloro che risultavano troppo deboli o incapaci di continuare a Bernung o Sonnenstein. In questi luoghi i prigionieri venivano uccisi con il gas. All’interno del campo i prigionieri troppo debilitati venivano uccisi per mezzo di iniezioni di fenolo, somministrate dai dottori delle SS. Il personale medico includeva 70 medici e ben 280 infermieri.

«La presenza fra i deportati di numerosi dirigenti politici, in special modo del partito comunista, favorì i contatti fra i vari gruppi nazionali esprimendosi in una solidarietà grazie alla quale fu possibile aiutare i più deboli e perfino salvare da sicura morte, nascondendoli con ingegnosi accorgimenti, alcuni che gli aguzzini avevano condannato per motivi spesso futili».

Dalle testimonianze certificate dei sopravvissuti, il “quadro” che ne esce sui crimini perpetrati giornalmente a Buchenwald è sconvolgente, con un vasto campionario di comportamenti riprovevoli da parte di aguzzini nazisti e medici criminali: lavoro massacrante fino a quindici ore al giorno, gravi sevizie e violenze compiute sui prigionieri, atti di sadismo, condizioni igieniche e sanitarie tali da favorire epidemie, esecuzioni sommarie per futili motivi, cibo scarso al limite della fame ed esperimenti su cavie umane.

Un testimone oculare (René Séglat, matricola 41.101 di Buchenwald, classificato “terrorista comunista” identificato dal triangolo rosso) ha raccontato particolari su come si svolgeva la vita nel campo: «Gli occupanti di tutte e 61 le baracche, o blocchi, dovevano alzarsi verso le quattro e trenta del mattino. Uscivamo a torso nudo e spesso dovevamo spezzare il ghiaccio per poterci lavare. Sani o malati, tutti dovevano ubbidire. Poi c’era la distribuzione del pane: una razione giornaliera di 200 – 300 grammi di pane insipido, con un sottile strato di margarina e qualcosa che somigliava vagamente alla marmellata. Alle 5.30 tutti venivano convocati per l’appello. Che esperienza terribile era portare fuori sulle spalle quelli che erano morti durante la notte! L’odore acre dei cadaveri bruciati ci ricordava i nostri compagni. Eravamo sopraffatti da sentimenti di ripugnanza, disperazione e odio, perché sapevamo che avremmo potuto facilmente fare la stessa fine. Il mio lavoro nel BAU II Kommando consisteva nello scavare fosse senza alcuno scopo. Appena avevamo terminato di scavare la fossa, profonda un paio di metri, dovevamo riempirla daccapo altrettanto scrupolosamente. Il lavoro iniziava alle 6.00 di mattina; a mezzogiorno c’era un intervallo di mezz’ora, dopo di che andavamo avanti fino alle 19.00. Spesso sembrava che l’appello serale non finisse mai. Ogni volta che sul fronte russo i tedeschi avevano subìto pesanti perdite, l’appello poteva durare anche fino a mezzanotte».

Un aspetto particolare, che dimostrò di quanto poco potesse valere la vita a Buchenwald, fu quello degli esperimenti medici sui prigionieri. Trattati come cavie, centinaia di internati furono sottoposti ad esperimenti molto pericolosi. Di alcuni di questi esperimenti, i medici conoscevano già il risultato: morte certa. L’intento «scientifico» era quello di verificare reazioni, resistenza e tempi prima del decesso. «in altri casi, gli obiettivi non erano riconducibili ad altro che alla perversione degli operatori medici».

I medici di Buchenwald condussero una serie di pericolosi esperimenti sugli internati usandoli come cavie. Per alcuni esperimenti si hanno dati certi, grazie a documenti e diari che hanno trattato in maniera particolareggiata questi esperimenti, per altri i dati sono scarsi e gli studiosi dell’olocausto cercano di ricostruirne l’entità e la portata, cercando di stabilire anche l’effettivo numero di vittime. Si sa di certo, per esempio, che a Buchenwald furono condotti esperimenti sulla febbre gialla e l’influenza. Si conosce «con certezza che gli infettati furono 485 prigionieri, di cui 90 olandesi», ma non si conosce invece quante furono le vittime di questo procedimento.

Tra dicembre 1943 ed ottobre 1944 un altro tipo di esperimento crudele occupò i medici di Buchenwald, riguardante la reazione ad alcuni veleni sull’uomo. Il veleno veniva messo nei cibi dei prigionieri, senza che questi ne fossero a conoscenza. A quel punto la maggioranza dei prigionieri moriva «quasi subito, coloro che sopravvivevano venivano invece uccisi per consentire le autopsie». In questo tipo di esperimento, vennero anche sparati sui prigionieri proiettili avvelenati, allo scopo di testarne l’efficacia. In questo tipo di esperimento si distinse il capo dell’ufficio di igiene del servizio medico delle SS, Joachim Mrugowsky, che alla fine della guerra fu processato e poi impiccato nel 1948.

Il dott. Hans Eisele fu invece responsabile a Buchenwald di tutti gli esperimenti di vivisezione compiuti sui prigionieri. Un altro “studio” di Eisele riguardò «il meccanismo del vomito». Per provocarlo somministrava iniezioni di apomorfine agli internati. Si calcola che almeno 300 prigionieri ebrei olandesi siano stati uccisi da questo tipo di esperimento. Aiutante di Eisele in questi “studi”, fu il dottor Neumann.

Il dottor Ellenback condusse invece esperimenti sui gruppi sanguigni. Molto attivo in questa pratica criminale fu il dottor Bruno Weber che «operava trasfusioni tra persone di gruppi sanguigni differenti», con il solo scopo di studiarne il decorso mortale.

Questo tipo di esperimento fu condotto su esseri umani in due località, nel lager di Buchenwald e nel lager di Natzweiler-Struthof. Quello che sappiamo sugli esperimenti di Buchenwald lo si deve al diario di centro-ricerche del dott. Erwin Ding-Schuler, il quale lavorava nel campo, alle deposizioni di vari scienziati europei internati nel lager e costretti a prendere parte a tali esperimenti, alle deposizioni del dott. Eugen Kogon, che riuscì a salvare il diario e che al processo di Norimberga fu interrogato come testimone. Il dott. Kogon era scrivano del reparto antipetecchiale e virologico nel lager, reparto che era diretto da Ding Schuler e che dipendeva dall’Istituto d’Igiene di Berlino, al capo del quale c’era l’SS-Oberfuhrer Murgowsky. Lo scopo era quello di arrivare alla formulazione ed alla produzione di un vaccino da distribuire alle truppe SS che in Oriente erano minacciate dal tifo petecchiale. La scelta del lager non è stata casuale. Infatti, all’interno di Buchenwald erano stati internati degli scienziati da cui ci si aspettava la massima collaborazione (alcuni degli internati cui ci si riferisce sono: Ludwig Fleck, Balachowsky, e van Lingen). Prima di provare una nuova formulazione, i medici delle SS provarono sui deportati i vari vaccini già esistenti per verificarne/confutarne l’effettiva efficacia. Gli esperimenti furono condotti nel blocco/baracca 46 del lager di Buchenwald. Almeno 200 furono i morti per questo tipo di esperimento.

Gli esperimenti vennero condotti a partire dal luglio 1944 nel campo di concentramento di Buchenwald dal medico SS danese Carl Peter Vaernet e consistevano nell’impianto di massicce dosi di testosterone su deportati omosessuali alla ricerca di una “cura” che avrebbe dovuto rendere eterosessuali i soggetti trattati. Il risultato fu che persero la vita per un esperimento fallimentare.

Buchenwald ha inoltre un triste primato: il primo campo interessato all’operazione “Aktion 14F13”, ovvero alla eliminazione fisica di tutti i disabili, operazione che si svolse sotto il controllo e le istruzioni di Heinrich Himmler.

A Buchenwald, Waldemar Hoven, che si era già distinto per esperimenti sul tifo petecchiale, su altri tipi di vaccini e su esperimenti condotti sulla gangrena gassosa, ebbe un ruolo di primo piano nell’attuare il progetto “Aktion 14F13”, l’eutanasia dei prigionieri mentalmente disabili, in cui è stato calcolato che 1000 internati vennero eliminati. D’altronde nel processo ai dottori, Hoven ammise:« In alcuni casi supervisionai le uccisioni dei prigionieri disabili con un’iniezione di fenolo, dietro richiesta dei prigionieri, all’interno dell’ospedale con l’assistenza di altri prigionieri. Il dottor Ding una volta disse che non seguivo la corretta procedura e praticò lui stesso tre iniezioni uccidendo tre prigionieri che morirono in pochi minuti ».

Il campo di Buchenwald è stato reso famoso anche da Ilse Koch, che nel 1936 sposò Karl Koch, comandante del campo. Per la sua ferocia, immoralità e sadismo, fu denominata dagli internati “la cagna di Buchenwald” (Buchenwälder Hündin), “la strega di Buchenwald” (Die Hexe von Buchenwald), “donnaccia di Buchenwald” (Buchenwälder Schlampe), “la iena di Buchenwald” (Hyänen von Buchenwald). Ilse Koch aveva un desiderio feticista per i tatuaggi dei prigionieri, che avrebbe fatto rimuovere dalle vittime, per conservarli. Nel blocco 50, dove i medici nazisti facevano gli esperimenti medici di ogni genere, pare che la pelle dei prigionieri che avevano tatuaggi, dopo l’uccisione, sia stata conciata, e pare che sia stata utilizzata per fare copertine di libri e paralumi per Ilse Koch.

Processata dal tribunale militare di Dachau, fu condannata all’ergastolo nel 1947, pena poi commutata in quattro anni “perché non erano state fornite prove evidenti”. Fu rilasciata nel 1949 dal generale Lucius Clay, comandante statunitense della zona tedesca, ma per le proteste suscitate dalla sua ingiustificata liberazione fu nuovamente arrestata e processata dalla corte tedesca. Il giudizio fu ancora una condanna all’ergastolo. Il 1º settembre 1967, la Koch fu trovata esanime nella sua cella della prigione di Aichach in Baviera; si era suicidata, impiccandosi.

Già dal 1938 iniziò a svilupparsi la resistenza clandestina degli internati nel campo, anche grazie ai detenuti politici che si erano infiltrati in quasi tutta l’amministrazione del lager. L’11 aprile del 1945 fuggirono quasi tutte le SS, e i prigionieri riuscirono a togliere il controllo del campo alle guardie rimaste. Quando gli alleati giunsero a Buchenwald, il campo era sotto il totale controllo della Resistenza.

Il generale Dwight Eisenhower e il generale Troy Middleton ispezionano Ohrdruf che faceva parte del complesso concentrazionario di Buchenwald

L’11 aprile 1945 i militari della US 89th Infantry Division (l’89ª divisione fanteria della terza armata degli Stati Uniti) raggiunsero la zona. Le SS fuggirono ed i prigionieri stessi liberarono il campo organizzando un sistema di autogestione interna. Nel pomeriggio i soldati del generale George Smith Patton spezzarono i fili spinati ed entrarono nel campo. Una cronaca di quelle ultime ore il deportato Stefan Jerzy Zweig, allora bambino, le ha lasciate nel suo romanzo dal titolo Le lacrime non bastano.

Quando l’11 aprile 1945 le truppe di liberazione statunitensi giunsero a Buchenwald, fra i sopravvissuti vi trovarono 904 giovanissimi prigionieri. La sopravvivenza di questi bambini («polacchi, ungheresi, cechi, slovacchi, romeni, lituani, alcuni russi e ucraini, qualche zingaro, un solo greco») fu eccezionale perché secondo i parametri e criteri nazisti applicati ad ogni lager, quelle “vite inutili”, o meglio dannose, perché solo da sfamare visto che non potevano contribuire in nessun modo “al lavoro”, dovevano essere eliminate. Il caso, unico nelle sue dimensioni in tutta la storia dei campi di concentramento nazisti, aveva una ragione, che l’apertura ai ricercatori del grande archivio nazista di Bad Arolsen, in Germania, ha contribuito a chiarire.

I bambini (la maggior parte adolescenti tra i 13 e i 17 anni, ma anche bambini fra i 6 e i 12 anni e due di 4 anni) si trovavano nel blocco 66, nel blocco 8 e alcune decine nel blocco 49. Questi erano diventati zone off limits per le stesse SS che non si azzardavano minimamente ad ispezionare questi blocchi; girava la voce, infatti, che questi blocchi fossero infestati dal tifo. A rendere possibile questo “miracolo”, in un campo di concentramento dove perirono più di 56.000 persone, furono alcuni coraggiosi detenuti giovani comunisti, che si sono battuti affinché questi bambini non fossero trasferiti ad altri campi di sterminio e fossero risparmiati dalle forme più brutali lavoro coatto.

A Buchenwald ci fu un movimento di resistenza attiva, un vero e proprio network di prigionieri politici ‘anziani’, in grado di agire in quella sorta di ‘zona grigia’ fra i comandanti e i detenuti, capace di dare protezione a quei bambini. Non solo hanno dato loro rifugio, ma hanno impartito loro alcuni rudimentali principi scolastici, come se si trovassero davvero in classe.

Coloro che si operarono a salvare i bambini furono in primo luogo i capi della baracca 8 (Franz Leitner, comunista austriaco di Vienna, e Wilhelm Hammann, comunista tedesco di Hesse) e i capi della baracca 66 (Antonin Kalina, un comunista di Praga, e il suo vice Gustav Schiller, un comunista ebreo polacco originario di Lvov).

Dopo la liberazione, i cappellani dell’esercito americano, Rabbi Herschel Schacter e Rabbi Robert Marcus, contattarono gli uffici della OSE (Oeuvre de Secours aux Enfants), organizzazione di soccorso dei bambini ebrei a Ginevra: 427 di quei bambini (la maggior parte dei quali erano rimasti orfani) furono ospitati in Francia, 280 in Svizzera e 250 in Inghilterra.

Alcuni di quei bambini sarebbero divenuti famosi nel dopoguerra, dal premio Nobel Elie Wiesel (allora un adolescente) a Yisrael Meir Lau (8 anni), che sarà rabbino capo di Tel Aviv, e ancora Thomas Geve e Gert Schramm, il più giovane prigioniero di colore del campo.

La consapevolezza dell’enormità delle uccisioni e delle condizioni disumane in cui vennero detenuti i deportati venne alla luce con l’ingresso nei campi, abbandonati dai nazisti in fuga, delle truppe russe e alleate sul finire della guerra.

Il numero del 7 maggio 1945 della rivista Life pubblica un servizio di sei pagine intitolato “Atrocities – Capture of the German concentration camps pile up evidences of barbarism that reaches the low point of human degradation”, con sei pagine di fotografie, scattate da quattro fotografi nei campi di Belsen, Buchenwald, Gardelegen e Nordhausen. A commento del valore di testimonianza delle immagini, nel testo è scritto:

Esistono numerose fotografie, filmati e resoconti che documentano della vita nel campo di Buchenwald nei giorni e nelle settimane successive alla Liberazione. Tra le testimonianze più importanti si annoverano anche i disegni realizzati da Corrado Cagli, giunto al campo tra le truppe alleate.

Alcuni giorni dopo la liberazione del campo da parte degli alleati, ovvero il 16 aprile 1945, «un’ordinanza del comandante statunitense», costrinse mille cittadini di Weimar a visitare il campo per la visione di “reperti” riguardanti un orrore ancora visibile dopo la liberazione. Fu organizzata una sorta di “mostra degli orrori” dei crimini perpetuati dai nazisti. Lo scopo era quello di mostrare ai cittadini ciò che fecero i loro connazionali nazisti, e di far capire di quali crimini anch’essi si erano resi implicitamente complici, poiché molti avevano asserito di non sapere che cosa era successo a pochi chilometri dal luogo in cui vivevano.

I cittadini di Weimar, per la maggior parte persone anziane, sfilarono in una sorta di processione a due a due attraverso un corridoio formato da due file di militari che condussero i visitatori in un percorso “macabro” e preordinato dei diversi blocchi. La visione comprendeva: camion stracolmi di cadaveri, mucchi di cadaveri in terra, fosse comuni con centinaia di morti, luoghi fatiscenti dove i prigionieri vivevano, un “campionario” di internati scheletrici con visi emaciati e occhi infossati, che si trascinavano a stento.

Su dei tavoli all’aperto, inoltre, erano stati posti in mostra diversi pezzi che dimostravano la crudeltà degli “artigiani nazisti” di Buchenwald: paralumi fatti di pelle con tatuaggi degli uccisi, teste umane miniaturizzate di alcuni prigionieri esposte come trofei, posacenere fatti da vertebre umane.

Gli statunitensi produssero anche filmati su questa visita forzata dove sono ben visibili le reazioni dei cittadini di Weimar: sgomento, pianto e incredulità in un ambiente fetido mostrato da riprese in cui molti visitatori, portavano, proprio per il fetore degli ambienti, un fazzoletto sul naso per gran parte dei percorsi guidato.

Numero di vittime

Il numero totale delle vittime è stato stimato in circa 56.000. Tra questi vi furono 15.000 sovietici, 7.000 polacchi, 6.000 ungheresi, 3.000 francesi e altre 26.000 persone da 26 paesi europei. Gli ebrei uccisi furono in complesso 11.000. Vi furono inoltre anche 9.000 vittime tedesche (prigionieri politici, religiosi, omosessuali, e altri). È stato possibile assegnare un nome a circa 36.000 vittime.

Comandanti del campo

SS-Standartenführer Karl Otto Koch (dal 1937 al 1941)

SS-Oberführer Hermann Pister (dal 1942 al 1945)