Ghettizzazione

I ghetti nazisti (Jüdischer Wohnbezirk o Wohngebiet der Juden) servirono durante l’Olocausto come prima tappa nel processo di segregazione, sfruttamento e poi di sterminio della popolazione ebraica europea. Varsavia, Łódź, Częstochowa, Białystok e Lublino in Polonia, Leopoli e Odessa in Ucraina, Minsk in Bielorussia, Vilnius in Lituania, Riga in Lettonia, Budapest in Ungheria, e la città-ghetto di Theresienstadt in Boemia, erano i più grandi e importanti.

La concentrazione forzata degli ebrei in quartieri urbani a loro designati (chiusi da recinti spinati o da muri) favoriva non solo in loro controllo e sfruttamento (con la confisca dei beni e delle proprietà e la loro riduzione in condizioni di schiavitù) ma anche l’obiettivo del loro progressivo sterminio. Solo la fame e le malattie causarono oltre 800.000 vittime nei ghetti. Gli “abili” erano quindi selezionati per il lavoro coatto, all’interno dei ghetti maggiori o più spesso trasferiti in appositi campi di concentramento. Gli “inabili” (vecchi, donne e bambini) venivano quindi progressivamente eliminati in luoghi isolati lontano dal ghetto attraverso fucilazioni di massa, o per gassazione nei campi di sterminio.

Il primo esplicito riferimento ai ghetti si trova in una circolare inviata il 21 settembre 1939 da Reinhard Heydrich ai capi degli Einsatzgruppen in Polonia tre settimane dopo l’inizio della seconda guerra mondiale: “Il primo prerequisito per la soluzione finale è la concentrazione degli ebrei dalla campagna nelle città più grandi”. A giudizio di Heydrich, i ghetti rappresentavano la migliore garanzia “di controllo e successiva deportazione” della popolazione ebraica. Ci sarebbero dovuti essere meno “centri di concentrazione” possibili e solo in città con buoni collegamenti ferroviari. Fin dall’inizio, i ghetti furono quindi destinati a essere solo una misura temporanea in vista della soluzione finale di ciò che i nazisti chiamavano il “problema ebraico”, qualunque essa sarebbe stata.

La costituzione dei ghetti fu di norma preceduta da atti di violenza ed intimidazione, volti ad eliminare potenziali oppositori e a terrorizzare la popolazione locale cosicché accettasse docilmente il confinamento nei ghetti “per la loro stessa protezione”.Specialmente nei ghetti creati nei territori dell’Unione Sovietica in seguito all’Operazione Barbarossa, le violenze sfociarono in veri e propri pogrom ed eccidi. A Leopoli o a Vilnius nell’estate 1941 o a Odessa nell’ottobre 1941, decine di migliaia di ebrei furono vittime di violenti pogrom prima ancora dell’istituzione dei ghetti. I 20.000 residenti del ghetto di Pinsk saranno quasi esclusivamente donne, anziani e bambini, perché la quasi totalità della popolazione maschile (11.000 persone) fu preventivamente eliminata nell’agosto 1941 in fucilazioni di massa.

Le condizioni di vita all’interno dei ghetti erano disumane: sovraffollamento, condizioni igienico-sanitarie disastrose, scarsi approvvigionamenti alimentari, assenza di riscaldamento nei rigidi inverni. Agli ebrei non erano permesso di uscire dal ghetto o di avere contatti con i non-ebrei, quando l’unica speranza di sopravvivenza era affidata al contrabbando. Racconta Hillel Chill Igielmann, sopravvissuto al ghetto di Bialobrzegi:

“L’unico modo di procurarsi del cibo era uscire dalla zona ebraica e cercare di raggiungere le fattorie, ma se eri catturato dai tedeschi ti sparavano. Pativamo molto il freddo perché non riuscivamo a trovare legna da ardere per riscaldare la casa, così abbiamo cercato di sgattaiolare fuori di notte per rompere le staccionate di legno, ma se venivi scoperto mentre facevi questo, i tedeschi ti sparavano. I tedeschi sapevano che degli ebrei erano riusciti a fuggire nei villaggi vicini, così offrivano una ricompensa di due libbre di zucchero a qualsiasi polacco che indicasse dove si nascondesse un ebreo, il che significava che non dovevamo guardarci solo dai tedeschi, ma anche dai polacchi, soprattutto dai giovani”.

La fame, il freddo e le malattie diventarono una preoccupazione costante nella vita del ghetto. Nonostante che agli ebrei stessi venissero fatte pagare le spese per la loro detenzione, gli approvvigionamenti erano ben al di sotto dei fabbisogni vitali. A Varsavia, lo stesso Oberfeldkommandant militare tedesco riferì il 20 maggio 1941:

“La situazione nel quartiere ebraico è catastrofica. I cadaveri di coloro che sono morti di fame giacciono per le strade: il tasso di mortalità (l’80% dei morti avviene a causa di malnutrizione) è triplicato da febbraio. L’unica cosa che viene data agli ebrei è mezzo chilo di pane alla settimana. Nessuno è ancora stato in grado di consegnare loro delle patate, per le quali il consiglio ebraico ha effettuato un pagamento anticipato di diversi milioni…”

I primi a soccombere furono i più deboli: i malati, gli anziani, i bambini. Alla fine saranno più di 800.000 le persone morte per cause “naturali” all’interno dei ghetti.

I ghetti non protessero affatto i residenti da continue violenze e intimidazioni, anzi resero più facile l’organizzazione di esecuzioni di massa. Soprattutto dal giugno 1941 nelle zone occupate dell’Unione sovietica gli Einsatzgruppen si resero protagonisti di massacri che annientarono la presenza ebraica in intere regioni. Così scomparvero alcuni dei grandi ghetti dell’Est europeo, prima ancora che entrassero in funzione i campi di sterminio.

Nel 1942, con l’Operazione Reinhard, si individuò nella creazione di appositi campi di sterminio (Chełmno, Bełżec, Sobibor, Treblinka) la soluzione finale al problema ebraico, con la liquidazione anche dei ghetti maggiori rimasti in Polonia. Con l’aggiunta ulteriore dei campi di Majdanek e Auschwitz, i ritmi di sterminio divennero tali che il 21 giugno 1943 Himmler poté ordinare la completa chiusura dei ghetti con il trasferimento della popolazione residua nei campi di concentramento o di sterminio. Solo alcuni ghetti, che furono ridisegnati come campi di concentramento, rimasero in funzione fino al 1944.

Per quanto disegnati specificamente per la popolazione ebraica, i ghetti nazisti servirono anche occasionalmente come luogo di raccolta di altri gruppi di perseguitati (come rom, omosessuali, politici, ecc.) che di lì transitarono verso i campi di lavoro o di sterminio.

Autogoverno dei ghetti

All’inizio i nazisti crearono delle forme di autogoverno nei ghetti, allo scopo di renderli formalmente retti da un consiglio ebraico (Judenrat) e da forze di polizia ebraiche (Jüdischer Ordnungsdienst) ritenuti responsabili dell’esecuzione degli ordini loro impartiti dalle autorità di occupazione tedesca.[5] Da parte loro, gli ebrei stessi cercarono per quanto possibile di organizzarsi, creando scuole e orfanotrofi per i bambini, ospedali per i malati, mense e ricoveri per i poveri, nel tentativo di mantenere per quanto possibile in vita le attività religiose, culturali e caritative della comunità.

Nonostante le brutali condizioni di vita, la “collaborazione” con le autorità naziste apparve a molti all’inizio come il modo migliore di “limitare” i danni. Ci si era illusi che l’interesse maggiore dei nazisti fosse quello di uno sfruttamento intensivo della manodopera ebraica per le finalità belliche e che la condizione di sopravvivenza fosse proprio nella dimostrazione di poter servire efficacemente a questo fine.

Ben presto tuttavia le autorità ebraiche di autogoverno si trovarono di fronte a scelte impossibili, quando si cominciò a richiedere loro di stilare le liste dei deportati. Rifiutarsi significava la morte per i componenti del Consiglio con l’unico risultato che le liste venissero compilate dai nazisti stessi. Accettare significava dover decidere chi inviare alla morte ma anche sperare di poter dare una qualche opportunità ai più giovani e ai bambini.

Ma quando nel corso del 1942 si intensificarono le deportazioni verso luoghi sconosciuti dai quali non vi erano ritorno, e ai ghetti fu chiesto sempre più frequentemente la consegna dei bambini, crebbe la consapevolezza che la sorte di tutti di ebrei era comunque segnata. Crebbero cosi’ all’interno dei ghetti i dubbi che la linea della collaborazione potesse produrre alcun frutto, fino al definitivo collasso e liquidazione da parte nazista delle istituzioni di autogoverno.

Rivolte dei ghetti

Nel 1943 le finalità di genocidio dei nazisti erano ormai chiare e cessò ogni illusione di compromesso. La disperazione crebbe nei ghetti, insieme con la fretta dei nazisti di completare l’opera (e al tempo stesso di cancellarne testimoni e prove) prima che i luoghi dello sterminio cadessero in mano nemiche, ora che la guerra si volgeva chiaramente in loro sfavore.

In alcuni ghetti si ebbero dei disperati tentativi di ribellione. Le rivolte più tenacemente perseguite furono la rivolta del ghetto di Varsavia nell’aprile-maggio 1943 e la rivolta del ghetto di Białystok nell’agosto 1943. Vi furono tentativi di resistenza significativi anche a Częstochowa, Mińsk Mazowiecki, Vilnius, e Będzin. Nonostante i progressi compiuti dalle truppe alleate, il fronte era ancora troppo lontano e le risorse degli insorti troppo limitate perché le rivolte potessero sperare in alcun successo. Gli insorti stessi erano coscienti che si trattasse solo della decisione di come morire.