Le Leggi Razziali

Le leggi razziali fasciste furono un insieme di provvedimenti legislativi e amministrativi (leggi, ordinanze, circolari) applicati in Italia fra il 1938 e il primo quinquennio degli anni quaranta, inizialmente dal regime fascista e poi dalla Repubblica Sociale Italiana.
Esse furono rivolte prevalentemente contro le persone ebree. Il loro contenuto fu annunciato per la prima volta il 18 settembre 1938 a Trieste da Benito Mussolini, da un palco posto davanti al Municipio in Piazza Unità d’Italia, in occasione di una sua visita alla città. Furono abrogate con i regi decreti-legge n. 25 e 26 del 20 gennaio 1944, emanati durante il Regno del Sud.
Per la legislazione fascista era ebreo chi era nato da: genitori entrambi ebrei, da un ebreo e da una straniera, da una madre ebrea in condizioni di paternità ignota oppure chi, pur avendo un genitore ariano, professasse la religione ebraica. Sugli ebrei venne emanata una serie di leggi discriminatorie.
Il fascismo – attraverso l’emanazione della Legge nº 1024 del 13 luglio 1939-XVII (Gazzetta ufficiale del 27 luglio 1939), Norme integrative del Regio decreto–legge 17 novembre 1938-XVI, n.1728, sulla difesa della razza italiana – ammise tuttavia la figura del cosiddetto ebreo arianizzato. Con la L. 1024/1939-XVII regolò infatti la «facoltà del Ministro per l’interno di dichiarare, su conforme parere della Commissione, la non appartenenza alla razza ebraica anche in difformità delle risultanze degli atti dello stato civile». Si trattò in sostanza del conferimento di un potere molto vasto alla Commissione per le discriminazioni: questa infatti poteva formulare un parere motivato, senza poterne rilasciare «copia a chicchessia e per nessuna ragione», sulla base del quale il Ministero dell’interno avrebbe a sua volta emanato un Decreto di dichiarazione della razza. Nell’autunno 1938, nel quadro di una grande azione razzista iniziata già tempo prima, il governo Mussolini varò la “normativa antiebraica sui beni e sul lavoro”, ovvero la spoliazione dei beni mobili e immobili degli ebrei residenti in Italia.
Agli ebrei arianizzati – cioè a quegli ebrei che in virtù della Legge nº 1024 del 13 luglio 1939-XVII ricevettero per Decreto la dichiarazione di appartenenza alla razza ariana – le leggi razziali furono applicate con alcune deroghe e limitazioni.
La legislazione antisemita comprendeva: il divieto di matrimonio tra italiani ed ebrei, il divieto per gli ebrei di avere alle proprie dipendenze domestici di razza ariana, il divieto per tutte le pubbliche amministrazioni e per le società private di carattere pubblicistico – come banche e assicurazioni – di avere alle proprie dipendenze ebrei, il divieto di trasferirsi in Italia a ebrei stranieri, la revoca della cittadinanza italiana concessa a ebrei stranieri in data posteriore al 1919, il divieto di svolgere la professione di notaio e di giornalista e forti limitazioni per tutte le cosiddette professioni intellettuali, il divieto di iscrizione dei ragazzi ebrei – che non fossero convertiti al cattolicesimo e che non vivessero in zone in cui i ragazzi ebrei erano troppo pochi per istituire scuole ebraiche – nelle scuole pubbliche, il divieto per le scuole di assumere come libri di testo opere alla cui redazione avesse partecipato in qualche modo un ebreo. Fu inoltre disposta la creazione di scuole – a cura delle comunità ebraiche – specifiche per ragazzi ebrei. Gli insegnanti ebrei avrebbero potuto lavorare solo in quelle scuole.
Infine vi fu una serie di limitazioni da cui erano esclusi i cosiddetti arianizzati: il divieto di svolgere il servizio militare, esercitare il ruolo di tutore di minori, essere titolari di aziende dichiarate di interesse per la difesa nazionale, essere proprietari di terreni o di fabbricati urbani al di sopra di un certo valore. Per tutti fu disposta l’annotazione dello stato di razza ebraica nei registri dello stato civile.
Nel primo numero della rivista La difesa della razza si sosteneva quanto segue:
«È tempo che gli Italiani si proclamino francamente razzisti. Tutta l’opera che finora ha fatto il Regime in Italia è in fondo del razzismo. Frequentissimo è stato sempre nei discorsi del Capo il richiamo ai concetti di razza. La questione del razzismo in Italia deve essere trattata da un punto di vista puramente biologico, senza intenzioni filosofiche o religiose. La concezione del razzismo in Italia deve essere essenzialmente italiana e l’indirizzo arianonordico.»
Il supposto fondamento e la presunta premessa teorica alle leggi razziali furono alcune considerazioni che avrebbero mirato a stabilire l’esistenza della razza italiana e la sua appartenenza a un immaginario gruppo delle cosiddette razze ariane. A tali considerazioni si cercò di dare un fondamento scientifico, benché quest’ultimo sia poi risultato inconsistente.
Dopo l’entrata in vigore nel 1937 del Regio decreto-legge n. 880 – che vietava il madamismo (l’acquisto di una concubina) e il concubinaggio degli italiani coi «sudditi delle colonie africane» – altre leggi di spiccata indole razzista vennero promulgate dal parlamento italiano.
Un documento importante in vista della promulgazione delle cosiddette leggi razziali fu il Manifesto degli scienziati razzisti (noto anche come Manifesto della Razza), pubblicato originariamente in forma anonima su Il Giornale d’Italia il 14 luglio 1938 col titolo Il Fascismo e i problemi della razza, quindi ripubblicato sul numero uno della rivista La difesa della razza il 5 agosto 1938 firmato da 10 scienziati.
Il 25 luglio 1938 – dopo un incontro tra i dieci redattori della tesi, il ministro della cultura popolare Dino Alfieri e il segretario del PNF Achille Starace – la segreteria politica del PNF comunica il testo completo del lavoro, corredato dall’elenco dei firmatari e degli aderenti.
Tra le successive adesioni al manifesto spiccano quelle di personaggi illustri – o destinati a diventare tali.
Nonostante alcuni abbiano sostenuto che Mussolini non fosse antisemita (tra l’altro una delle sue amanti, Margherita Sarfatti, era ebrea), Galeazzo Ciano riporta nel suo diario per la giornata del 14 luglio 1938: «Il Duce mi annuncia la pubblicazione da parte del Giornale d’Italia di uno statement sulle questioni della razza. Figura scritto da un gruppo di studiosi, sotto l’egida del Ministero della Cultura Popolare. Mi dice che in realtà l’ha quasi completamente redatto lui».
Al Regio decreto-legge del 5 settembre 1938 – che fissava «Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista» – e a quello del 7 settembre – che fissava «Provvedimenti nei confronti degli ebrei stranieri» – fa seguito (6 ottobre) una «dichiarazione sulla razza» emessa dal Gran Consiglio del Fascismo. Tale dichiarazione viene successivamente adottata dallo Stato sempre con un Regio decreto-legge che porta la data del 17 novembre dello stesso anno.
Sono dunque molti i decreti che, tra l’estate e l’autunno del 1938, sono firmati da Benito Mussolini in qualità di capo del Governo e poi promulgati da Vittorio Emanuele III. Tutti tendenti a legittimare una visione razzista della cosiddetta “questione ebraica”. L’insieme di questi decreti e dei documenti sopra citati costituisce appunto l’intero corpus delle leggi razziali.
Alcuni degli scienziati e intellettuali ebrei colpiti dal provvedimento del 5 settembre (riguardante in special modo il mondo della scuola e dell’insegnamento) emigrano negli Stati Uniti. Tra loro ricordiamo: Emilio Segrè, Achille Viterbi (padre di Andrea Viterbi), Bruno Pontecorvo, Bruno Rossi, Ugo Lombroso, Giorgio Levi Della Vida, Mario Castelnuovo-Tedesco, Vittorio Rieti, Camillo Artom, Ugo Fano, Roberto Fano, Salvatore Luria, Renzo Nissim, Piero Foà, Luigi Jacchia, Guido Fubini, Massimo Calabresi, Franco Modigliani. Altri troveranno rifugio in Gran Bretagna (Arnaldo Momigliano, Elio Nissim, Uberto Limentani, Guido Pontecorvo); in Palestina (Umberto Cassuto, Giulio Racah); o in Sudamerica (Carlo Foà, Amedeo Herlitzka, Beppo Levi, Renzo Massarani). Con loro lasceranno l’Italia anche Enrico Fermi e Luigi Bogliolo, le cui mogli erano ebree.
Chi decide di rimanere in Italia è costretto ad abbandonare la cattedra. Tra questi: Leone Ginzburg, Tullio Ascarelli, Walter Bigiavi, Mario Camis, Federico Cammeo, Alessandro Della Seta, Donato Donati, Mario Donati, Marco Fanno, Gino Fano, Federigo Enriques, Giuseppe Levi, Benvenuto Terracini, Rodolfo Mondolfo, Adolfo Ravà, Attilio Momigliano, Gino Luzzatto, Donato Ottolenghi, Tullio Terni, Mario Fubini ed Ernesto Buonaiuti. Alcuni saranno in grado di continuare nell’insegnamento perché chiamati da papa Pio XI nelle sedi di università ecclesiastiche, anche in segno di sfida e disaccordo con il regime fascista sulla questione razziale come aveva manifestato in più occasioni:
«Ma io mi vergogno… mi vergogno di essere italiano. E lei padre -il gesuita Tacchi Venturi-, lo dica pure a Mussolini! Io non come papa, ma come italiano mi vergogno! Il popolo italiano è diventato un branco di pecore stupide. Io parlerò, non avrò paura. Mi preme il Concordato, ma più mi preme la coscienza.»
Potranno quindi proseguire a professare la propria docenza presso gli istituti vaticani esimi accademici come Tullio Levi-Civita e Vito Volterra, nominati membri della Pontificia accademia delle scienze guidata da padre Agostino Gemelli. Politica, questa, continuata anche dal successore papa Pio XII, e testimoniata perfino dal giornale della comunità ebraica del Missouri, il Kansas City Jewish Chronicle, che nell’edizione del 29 marzo 1940, commentando l’assunzione di diversi professori ebrei nell’amministrazione della Santa Sede (tra questi il geografo Roberto Almagià, impiegato presso la Biblioteca vaticana) scriveva che “quanto il Papa stava facendo dimostrava la sua disapprovazione dei decreti antisemiti”. L’insegnamento nelle scuole riservate agli ebrei tuttavia non viene proibito.
Tra le dimissioni illustri da istituzioni scientifiche italiane ci sono quelle di Albert Einstein, allora membro dell’Accademia dei Lincei.
Il 5 agosto 1938 sulla rivista La difesa della razza viene pubblicato il seguente manifesto:
«Il ministro segretario del partito ha ricevuto, il 26 luglio XVI, un gruppo di studiosi fascisti, docenti nelle università italiane, che hanno, sotto l’egida del Ministero della Cultura Popolare, redatto o aderito, alle proposizioni che fissano le basi del razzismo fascista.
LE RAZZE UMANE ESISTONO. L’esistenza delle razze umane non è già una astrazione del nostro spirito, ma corrisponde a una realtà fenomenica, materiale, percepibile con i nostri sensi. Questa realtà è rappresentata da masse, quasi sempre imponenti di milioni di uomini simili per caratteri fisici e psicologici che furono ereditati e che continuano a ereditarsi. Dire che esistono le razze umane non vuol dire a priori che esistono razze umane superiori o inferiori, ma soltanto che esistono razze umane differenti.
ESISTONO GRANDI RAZZE E PICCOLE RAZZE. Non bisogna soltanto ammettere che esistano i gruppi sistematici maggiori, che comunemente sono chiamati razze e che sono individualizzati solo da alcuni caratteri, ma bisogna anche ammettere che esistano gruppi sistematici minori (come per es. i nordici, i mediterranei, i dinarici, ecc.) individualizzati da un maggior numero di caratteri comuni. Questi gruppi costituiscono dal punto di vista biologico le vere razze, la esistenza delle quali è una verità evidente.
IL CONCETTO DI RAZZA È CONCETTO PURAMENTE BIOLOGICO. Esso quindi è basato su altre considerazioni che non i concetti di popolo e di nazione, fondati essenzialmente su considerazioni storiche, linguistiche, religiose. Però alla base delle differenze di popolo e di nazione stanno delle differenze di razza. Se gli Italiani sono differenti dai Francesi, dai Tedeschi, dai Turchi, dai Greci, ecc., non è solo perché essi hanno una lingua diversa e una storia diversa, ma perché la costituzione razziale di questi popoli è diversa. Sono state proporzioni diverse di razze differenti, che da tempo molto antico costituiscono i diversi popoli, sia che una razza abbia il dominio assoluto sulle altre, sia che tutte risultino fuse armonicamente, sia, infine, che persistano ancora inassimilate una alle altre le diverse razze.
LA POPOLAZIONE DELL’ITALIA ATTUALE È NELLA MAGGIORANZA DI ORIGINE ARIANA E LA SUA CIVILTÀ È ARIANA. Questa popolazione a civiltà ariana abita da diversi millenni la nostra penisola; ben poco è rimasto della civiltà delle genti preariane. L’origine degli Italiani attuali parte essenzialmente da elementi di quelle stesse razze che costituiscono e costituirono il tessuto perennemente vivo dell’Europa.
È UNA LEGGENDA L’APPORTO DI MASSE INGENTI DI UOMINI IN TEMPI STORICI. Dopo l’invasione dei Longobardi non ci sono stati in Italia altri notevoli movimenti di popoli capaci di influenzare la fisionomia razziale della nazione. Da ciò deriva che, mentre per altre nazioni europee la composizione razziale è variata notevolmente in tempi anche moderni, per l’Italia, nelle sue grandi linee, la composizione razziale di oggi è la stessa di quella che era mille anni fa: i quarantaquattro milioni d’Italiani di oggi rimontano quindi nella assoluta maggioranza a famiglie che abitano l’Italia da almeno un millennio.
ESISTE ORMAI UNA PURA “RAZZA ITALIANA”. Questo enunciato non è basato sulla confusione del concetto biologico di razza con il concetto storico–linguistico di popolo e di nazione ma sulla purissima parentela di sangue che unisce gli Italiani di oggi alle generazioni che da millenni popolano l’Italia. Questa antica purezza di sangue è il più grande titolo di nobiltà della Nazione italiana.
È TEMPO CHE GLI ITALIANI SI PROCLAMINO FRANCAMENTE RAZZISTI. Tutta l’opera che finora ha fatto il Regime in Italia è in fondo del razzismo. Frequentissimo è stato sempre nei discorsi del Capo il richiamo ai concetti di razza. La questione del razzismo in Italia deve essere trattata da un punto di vista puramente biologico, senza intenzioni filosofiche o religiose. La concezione del razzismo in Italia deve essere essenzialmente italiana e l’indirizzo ariano–nordico. Questo non vuole dire però introdurre in Italia le teorie del razzismo tedesco come sono o affermare che gli Italiani e gli Scandinavi sono la stessa cosa. Ma vuole soltanto additare agli Italiani un modello fisico e soprattutto psicologico di razza umana che per i suoi caratteri puramente europei si stacca completamente da tutte le razze extra–europee, questo vuol dire elevare l’italiano a un ideale di superiore coscienza di sé stesso e di maggiore responsabilità.
È NECESSARIO FARE UNA NETTA DISTINZIONE FRA I MEDITERRANEI D’EUROPA (OCCIDENTALI) DA UNA PARTE E GLI ORIENTALI E GLI AFRICANI DALL’ALTRA. Sono perciò da considerarsi pericolose le teorie che sostengono l’origine africana di alcuni popoli europei e comprendono in una comune razza mediterranea anche le popolazioni semitiche e camitiche stabilendo relazioni e simpatie ideologiche assolutamente inammissibili.
GLI EBREI NON APPARTENGONO ALLA RAZZA ITALIANA. Dei semiti che nel corso dei secoli sono approdati sul sacro suolo della nostra Patria nulla in generale è rimasto. Anche l’occupazione araba della Sicilia nulla ha lasciato all’infuori del ricordo di qualche nome; e del resto il processo di assimilazione fu sempre rapidissimo in Italia. Gli ebrei rappresentano l’unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli Italiani.
I CARATTERI FISICI E PSICOLOGICI PURAMENTE EUROPEI DEGLI ITALIANI NON DEVONO ESSERE ALTERATI IN NESSUN MODO. L’unione è ammissibile solo nell’ambito delle razze europee, nel quale caso non si deve parlare di vero e proprio ibridismo, dato che queste razze appartengono a un ceppo comune e differiscono solo per alcuni caratteri, mentre sono uguali per moltissimi altri. Il carattere puramente europeo degli Italiani viene alterato dall’incrocio con qualsiasi razza extra–europea e portatrice di una civiltà diversa dalla millenaria civiltà degli ariani.»
I 10 scienziati italiani redattori del manifesto della razza
Lino Businco, assistente alla cattedra di patologia generale all’Università di Roma
Lidio Cipriani, professore incaricato di antropologia all’Università di Firenze
Arturo Donaggio, direttore della Clinica Neuropsichiatrica dell’Università di Bologna, presidente della Società Italiana di Psichiatria
Leone Franzi, assistente nella Clinica Pediatrica dell’Università di Milano
Guido Landra, assistente alla cattedra di antropologia all’Università di Roma, ritenuto l’estensore materiale del manifesto della razza
Nicola Pende (attestazione incerta), direttore dell’Istituto di Patologia Speciale Medica dell’Università di Roma
Marcello Ricci, assistente alla cattedra di zoologia all’Università di Roma
Franco Savorgnan, professore ordinario di demografia all’Università di Roma, presidente dell’Istituto Centrale di Statistica
Sabato Visco, direttore dell’Istituto di Fisiologia Generale dell’Università di Roma, direttore dell’Istituto Nazionale di Biologia presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche
Edoardo Zavattari, direttore dell’Istituto di Zoologia dell’Università di Roma
Vittorio Emanuele III, particolarmente legato al suo ruolo di sovrano costituzionale, firmò le leggi razziali nel 1938 approvate dal Parlamento e vagliate dai competenti organi dello stato. Personalmente il re non era affatto razzista – tanto che il medico di corte, dott. Stukjold, era ebreo – e vanto della sua Casata era stato, quasi un secolo addietro, concedere con lo Statuto Albertino i diritti civili e politici ai cittadini del Regno, compresi quelli di religione ebraica. Per tali ragioni il sovrano non perse occasione per far presente al capo del governo Mussolini il proprio dissenso, pur tenuto dallo Statuto alla promulgazione di quei provvedimenti scellerati e constatando con frustrazione di avere poche possibilità di opporsi efficacemente giacché in quel momento storico il dittatore era all’apice della popolarità, adorato dalle masse e tenuto in gran conto all’estero, e indicato quale “uomo della Provvidenza” dal Papa. Della contrarietà di Vittorio Emanuele scrive Galeazzo Ciano nel suo Diario 1937-1943, giorno 28 novembre 1938: “Trovo il Duce indignato col Re. Per tre volte, durante il colloquio di stamane, il Re ha detto al Duce che prova un’infinita pietà per gli ebrei. Il Duce ha detto che in Italia vi sono 20000 persone con la schiena debole che si commuovono sulla sorte degli ebrei. il Re ha detto che è tra quelli. Poi il Re ha parlato anche contro la Germania per la creazione della 4 divisione alpina. Il Duce era molto violento nelle espressioni contro la Monarchia. Medita sempre più il cambiamento di sistema. Forse non è ancora il momento. Vi sarebbero reazioni”. Promulgate le leggi, le discriminazioni colpirono gli ebrei italiani nei loro diritti, libertà e dignità, senza ancora giungere alla reclusione e alla eliminazione fisica dei soggetti “non ariani” almeno finché il Regno d’Italia rimase integro e autonomo dal Reich: l’estremo passo fu compiuto solo con la proclamazione della repubblica di Salò. Con l’Italia spezzata in due, nel Regno del Sud il Re che non le aveva volute potè finalmente provvedere alla cancellazione delle abominevoli leggi razziali nel 1944.
Ancor prima dell’emanazione dei decreti attuativi delle leggi razziali (settembre-novembre 1938) Pio XI tenne due discorsi pubblici il 15 e il 28 luglio pronunciandosi contro il “Manifesto degli scienziati razzisti” (15 luglio) lamentandosi che l’Italia, sul razzismo, imitasse “disgraziatamente” la Germania nazista (28 luglio). Il ministro degli esteri Galeazzo Ciano commentandoli riportò nei suoi diari la reazione di Mussolini che tentava di evitare contestazioni plateali: «Sembra che il Papa abbia fatto ieri un nuovo discorso sgradevole sul nazionalismo esagerato e sul razzismo. Il Duce, che ha convocato per questa sera Padre Tacchi Venturi. Contrariamente a quanto si crede, ha detto, io sono un uomo paziente. Bisogna però che questa pazienza non mi venga fatta perdere, altrimenti agisco facendo il deserto. Se il Papa continua a parlare, io gratto la crosta agli italiani e in men che non si dica li faccio tornare anticlericali.» Malgrado l’opposizione di papa Pio XI al regime nazista, espressa nel 1937 con l’enciclica Mit brennender Sorge e la condanna del fascismo come dottrina totalitaria (statolatria) pagana nell’enciclica Non Abbiamo Bisogno promulgata il 29 giugno 1931, secondo alcuni storici, nel caso delle leggi razziali fasciste il Vaticano nel complesso non denunciò con altrettanta fermezza la linea discriminatoria verso gli ebrei, preoccupandosi soltanto di «ottenere dal governo la modifica degli articoli che potevano ledere le prerogative della Chiesa sul piano giuridico concordatario specialmente per quanto riguardava gli ebrei convertiti». D’altro canto, lo storico Michele Sarfatti, direttore del Centro di documentazione ebraica contemporanea di Milano, riconosce la «caratterizzazione nettamente antirazzista della battaglia in difesa della libertà di matrimonio».
La Civiltà Cattolica, commentando il Manifesto degli scienziati razzisti, credette allora di rilevarvi una notevole differenza rispetto al razzismo nazista:
«Chi ha presente le tesi del razzismo tedesco, rileverà la notevole differenza di quelle proposte da questo gruppo di studiosi fascisti italiani. Questo confermerebbe che il fascismo italiano non vuol confondersi col nazismo o razzismo tedesco intrinsecamente ed esplicitamente materialistico e anticristiano»
Secondo lo storico Renzo De Felice, se la Santa Sede non approvò un razzismo di stampo puramente materialistico e biologico, «al tempo stesso non era contraria a una moderata azione antisemita, estrinsecantesi sul piano delle minorazioni civili».
De Felice rileva come la loro preoccupazione maggiore fosse data dal fatto che la politica fascista non attaccava l’ebraismo come religione, ma come razza. Comunque, tracciando un bilancio dell’atteggiamento dei cattolici italiani di fronte alle leggi antiebraiche, sempre lo storico scrive: «Nei documenti testé citati abbiamo visto come i cattolici avessero ovunque una posizione nettamente contraria ai provvedimenti antisemiti. Il fatto è incontrovertibile e, anzi, costituirà una costante sino al 1945». Tuttavia, continua De Felice, «le gerarchie cattoliche e i giornali preferirono però non correre rischi e, pur non accettandolo, cessarono quasi completamente ogni polemica pubblica contro l’antisemitismo».
Di fronte al silenzio degli avversari dell’antisemitismo non tacquero gli antisemiti, che certamente non mancavano tra i cattolici e tra le stesse gerarchie ecclesiastiche. Ad esempio il quotidiano Il regime fascista, diretto da Roberto Farinacci, scrisse il 30 agosto 1938 che vi era «molto da imparare dai Padri della Compagnia di Gesù» e che «il fascismo è molto inferiore, sia nei suoi propositi, sia nell’esecuzione, al rigore de La Civiltà cattolica». Affermazione non molto lontana dal vero se prendiamo in considerazione alcune pubblicazioni della rivista cattolica. Ad esempio nel 1938, in un articolo polemico, la rivista criticò aspramente lo scienziato Rudolf Lämmel a causa di una sua opera nella quale condannava l’antisemitismo nazista. Scrisse La Civiltà cattolica che Lämmel era tuttavia esagerato, «troppo immemore delle continue persecuzioni degli ebrei contro i cristiani, particolarmente contro la Chiesa Cattolica, e dell’alleanza loro con i massoni, coi socialisti e con altri partiti anticristiani; esagera troppo quando conclude che «sarebbe non solo illogico e antistorico, ma un vero tradimento morale se oggidì il cristianesimo non si prendesse cura degli ebrei». Né si può dimenticare che gli ebrei medesimi hanno richiamato in ogni tempo e richiamano tuttora su di sé le giuste avversioni dei popoli coi lor soprusi troppo frequenti e con l’odio verso Cristo medesimo, la sua religione e la sua Chiesa Cattolica».
Inoltre, La Civiltà cattolica definì l’«antisemitismo dei cattolici ungheresi» come «un movimento di difesa delle tradizioni nazionali e della vera libertà e indipendenza del popolo magiaro».
Anche la rivista Vita e pensiero, fondata da Agostino Gemelli nel 1914, giustificò sostanzialmente la politica antisemita del fascismo. Che la posizione della rivista ricalcasse le medesime posizioni del fascismo sarebbe ampiamente dimostrato dalle pubbliche esternazioni del suo stesso fondatore: padre Agostino Gemelli che in una conferenza da lui tenuta il 9 gennaio 1939 all’Università di Bologna, affermò: «Tragica senza dubbio, e dolorosa la situazione di coloro che non possono far parte, e per il loro sangue e per la loro religione, di questa magnifica patria; tragica situazione in cui vediamo una volta di più, come molte altre nei secoli, attuarsi quella terribile sentenza che il popolo deicida ha chiesto su di sé e per la quale va ramingo per il mondo, incapace di trovare la pace di una patria, mentre le conseguenze dell’orribile delitto lo perseguitano ovunque e in ogni tempo».
Roberto Farinacci, su Il regime fascista del 10 gennaio, si precipitò a proclamare: «non siamo soli» facendo un panegirico del discorso bolognese del Gemelli. Due mesi dopo chiese a Mussolini di nominare Gemelli (definito «uomo veramente nostro») all’Accademia d’Italia.
E il giovane scrittore cattolico Gabriele De Rosa nel 1939 pubblicò il volumetto razzista e antigiudaico La rivincita di Ario, pronunciandosi contro “il focolaio ebraico” nella Palestina.
Papa Pio XI, che otto anni prima aveva definito Mussolini «l’uomo della Provvidenza» («E forse ci voleva anche un uomo come quello che la Provvidenza Ci ha fatto incontrare») nel 1937 aveva già scritto un’enciclica contro l’antisemitismo dei nazisti, la Mit brennender Sorge, che però si riferiva alla situazione in Germania e non citava l’Italia poiché non c’era ancora stato nulla di antisemita nella politica del regime fascista. Nel 1938-1939 egli affidò il progetto di un’ulteriore enciclica di condanna dell’antisemitismo al gesuita statunitense John LaFarge, ma tale progetto fu avocato a sé dal Superiore Generale della Compagnia di Gesù, che consegnò il testo dell’enciclica solo un anno dopo, poco prima che Pio XI morisse. Il successore papa Pio XII, già nunzio apostolico a Berlino, non la fece pubblicare, benché fosse stato egli stesso uno dei redattori della precedente enciclica di condanna del nazismo.
Pio XI tenne il discorso rimasto più celebre durante un’udienza generale il 6 settembre, il giorno dopo l’emanazione del Provvedimento per la difesa della razza nella scuola italiana da parte del governo. Il papa disse fra le lacrime:
«Non è lecito per i cristiani prendere parte all’antisemitismo. L’antisemitismo è inammissibile. Noi siamo spiritualmente semiti.»
Mussolini, nel discorso di Trieste del settembre del 1938, accusò il Papa di difendere gli ebrei (indirettamente citato nella frase «da troppe Cattedre li si difende») e minacciò provvedimenti più severi a loro danno se i cattolici avessero insistito. Ciò nonostante, in quei giorni molti vescovi italiani tennero omelie contrarie al razzismo. Anche la maggior parte dei cattolici fascisti furono contro le leggi razziali, come Egilberto Martire, direttore della Rassegna Romana (su cui scriveva anche il cardinale Pacelli). La Rassegna Romana uscì nell’estate del 1938 con un fascicolo contro il razzismo. Martire, che pure era un clericofascista, andò al confino per questo.
Pio XI protestò, poi, ufficialmente e per iscritto con il re e con il capo del governo per la violazione del Concordato prodotta dai decreti razziali. La rivista La difesa della razza e i suoi contenuti inneggianti a un razzismo biologico furono ufficialmente condannati dal Sant’Uffizio.Il 3 maggio 1938, il giorno della visita di Hitler a Roma, venne pubblicato il Syllabus antirazzista, un documento di condanna delle leggi razziste, elaborato dalle Università Cattoliche su invito di papa Pio XI. Con quest’azione il papa intendeva «opporsi frontalmente a quello che riteneva il cuore stesso della dottrina del nazionalsocialismo».
L’unico prelato che, dopo la promulgazione delle leggi razziali, discusse delle stesse faccia a faccia con Benito Mussolini, fu monsignor Antonio Santin, vescovo di Trieste e Capodistria. Dopo l’approvazione delle leggi, chiese udienza a Mussolini: «Perorai la loro causa; in seguito aiutai moltissimi che venivano da me in cerca di protezione». Quando vide che sulla scrivania di Mussolini era scritto: “Per favore, siate brevi”, si alzò per andar via. Mussolini subito levò l’avviso e lo fece di nuovo accomodare. Mons. Santin disse che quelle leggi erano ingiuste e non si limitò a parlare dei matrimoni misti, ma difese gli Ebrei, asserendo che a Trieste c’era tra di loro tanta povera gente.
Dopo il 1943, quando l’unità dello stato fascista era terminata la questione delle leggi razziali fu affrontata direttamente dal Vaticano a opera del cardinale Luigi Maglione e dal gesuita Pietro Tacchi Venturi. Tacchi Venturi riteneva che le leggi razziali avrebbero dovute esser abolite solo per gli ebrei convertiti al cristianesimo e si sarebbero dovute mantenere invece le restrizioni per coloro che appartenevano alla religione ebraica. Nel ricevere delle lettere da parte della comunità ebraica italiana che lo invitavano a intercedere perché le leggi antiebraiche italiane fossero abolite del tutto, nega il suo sostegno affermando: «guardandomi bene dal pure accennare alla totale abrogazione di una legge (le leggi razziali) la quale secondo i principii e le tradizioni della Chiesa cattolica, ha bensì disposizioni che vanno abrogate, ma ne contiene pure altre meritevoli di conferma». Il segretario di Stato, Maglione, fu di diverso avviso e non si oppose alla abrogazione delle leggi razziali da parte del governo Badoglio.
Pio XII fece giungere alle autorità italiane nel marzo 1939 il Promemoria che era stato redatto nei mesi precedenti per volontà di Pio XI, e che “era giunto ad una condanna complessiva dell’antisemitismo”. Fu consegnato all’ambasciatore presso la Santa Sede.
Già dall’autunno del 1938 l’allontanamento degli studenti di fede ebraica dalle scuole pubbliche italiane, avviene in anticipo di qualche giorno rispetto a quelle del Terzo Reich. Viene istituito il “tribunale della razza” una Commissione, istituita con la Legge 13 luglio 1939-XVII, n. 1024 “Norme integrative del R. decreto-legge 17 novembre 1938-XVII, n. 1728, sulla difesa della razza italiana”, che era nominata dal “Ministro per l’interno”, per poter dichiarare “la non appartenenza alla razza ebraica anche in difformità delle risultanze degli atti dello stato civile”, sottraendo dall’applicazione delle leggi razziali fasciste. Era composta da un magistrato di grado 3°, con funzioni di presidente, da due magistrati di grado non inferiore al 5°, designati dal Ministro di grazia e giustizia, e da due funzionari del Ministero dell’interno. Era ubicata presso il dipartimento di Demografia e razza (detta Demorazza) del ministero dell’Interno, ed emetteva pareri cui il ministro doveva conformarsi. Operò dal novembre 1939 al giugno 1943. Il presidente fu il giudice Gaetano Azzariti insieme a Antonio Manca e Giovanni Petraccone.
L’applicazione coinvolge, nell’autunno 1938, anche i “nove senatori di origine ebraica: Salvatore Barzilai, Enrico Catellani, Adriano Diena, Isaia Levi, Achille Loria, Teodoro Mayer, Elio Morpurgo, Salvatore Segrè Sartorio e Vito Volterra (…) Nel fascicolo dell’Archivio storico del Senato dedicato alle proposte di discriminazione, sono conservati i relativi carteggi, che mettono in luce i diversi atteggiamenti dei senatori coinvolti nella persecuzione”.
Nel 1939, il ministro della Giustizia Arrigo Solmi chiese a tutti magistrati una dichiarazione di non appartenenza alla razza ebraica al fine di verificare ‘la purezza razziale dell’intero apparato’. Era già accaduto pochi mesi prima con gli insegnanti e gli studenti nelle scuole. In grandi sedi giudiziarie così come in alcuni piccoli tribunali, da un giorno all’altro non si presentarono più diversi magistrati di diverso rango, da giovani uditori giudiziari ai consiglieri di appello e di Cassazione. Come ricorda lo studioso Guido Neppi Modona non risulta che alcuno dei circa 4200 magistrati in servizio abbia in qualche modo preso le distanze, magari rifiutando di rispondere alla richiesta di dichiarare la propria appartenenza razziale, ovvero in qualche modo manifestando solidarietà nei confronti dei colleghi rimossi dal servizio”.
A seguito del Decreto Legge del 17 novembre 1938, il cui articolo 13 vietava alle persone di confessione ebraica di lavorare alle dipendenze di enti pubblici, aziende statali e parastatali, in Stipel il 1º maggio 1939 furono licenziati 14 dipendenti. Al termine del secondo conflitto mondiale, uno di questi lavoratori ricorse alle vie legali per essere riassunto. Il processo si concluse il 24 gennaio 1948, con una sentenza della Cassazione, la quale obbligò la società alla riassunzione del lavoratore, senza però garantire il diritto all’indennità d’anzianità per il periodo di estromissione, e senza il reintegro nella posizione precedentemente occupata.
Le leggi razziali sono state abrogate con i regi decreti-legge nn. 25 e 26 del 20 gennaio 1944.
Furono 96 i professori universitari italiani di ruolo identificati come ebrei e sospesi dal servizio a decorrere dal 16 ottobre 1938, secondo il R.D.L. 5.IX.1938, n. 1390, e poi dispensati a decorrere da 14 dicembre 1938, secondo il R.D.L. 15. XI. 1938, n. 1779. L’elenco originariamente redatto dalle autorità fasciste ne conteneva 99, ma per tre di essi fu accolto il ricorso che ne comprovava l’esenzione sulla base delle eccezioni vigenti. Per molti l’espatrio – affrontato in circostanze difficili e spesso avventurose – rappresentò l’unica possibilità di proseguire la carriera accademica, negli Stati Uniti, in Inghilterra, in Sudamerica o in Israele. Per coloro che restarono in Italia ci furono da affrontare gli anni drammatici della guerra e dell’Olocausto. Tullio Levi Civita e Roberto Almagià trovarono lavoro e rifugio in Vaticano. Per altri la salvezza fu rappresentata dall’espatrio clandestino in Svizzera o dall’ospitalità di amici e istituti religiosi. Renzo Fubini, Leone Maurizio Padoa e Ciro Ravenna, deportati, periranno ad Auschwitz nel 1944. Edoardo Volterra e Mario Attilio Levi si unirono alla Resistenza, entrambi insigniti di Medaglia d’argento al valor militare. Negli Stati Uniti, Emilio Segrè e Bruno Rossi collaborarono con Enrico Fermi al Progetto Manhattan. Alla fine, solo 28 dei 96 professori epurati ripresero servizio nel 1946.
In realtà il numero di coloro che furono epurati nel 1938 secondo i due sopracitati decreti fu molto più alto, in quanto ai professori di ruolo vanno aggiunti gli oltre 200 ricercatori e studiosi ebrei che esercitavano la libera docenza, tra cui specialisti di rilievo internazionale come Alberto Mario Bedarida (analisi algebrica), Enrica Calabresi (zoologia), Arturo Castiglioni (storia della medicina), Bonaparte Colombo (analisi infinitesimale), Ugo Della Seta (storia della filosofia), Giulio Faldini (ortopedia), Antonello Gerbi (storia delle dottrine politiche), Alda Levi (archeologia), Roberto Sabatino Lopez (storia medievale), Giuseppe Jona (patologia medica), Mafalda Pavia (pediatria), Mario Segre (epigrafia), Israel Zolli (lingua e letteratura ebraica), e molti altri.
Furono quindi un totale di oltre 300 i docenti epurati dall’università italiana in seguito all’introduzione delle leggi razziali, senza contare i professori di liceo, gli accademici, gli autori di libri di testo messi all’indice e i tanti giovani laureati e ricercatori, la cui carriera fu stroncata sul nascere. Le perdite furono particolarmente significative nei campi della medicina, delle discipline giuridico-economiche, delle scienze e delle materie umanistiche. Le leggi razziali ebbero un effetto devastante anche sulla presenza delle poche donne allora operanti nell’università italiana, delle quali una larga percentuale era di origine ebraica, da Anna Foà (unica donna ordinaria tra agli espulsi), alle molte donne ebree esercitanti la libera docenza: Vita Nerina (chimica) e Pierina Scaramella (botanica) a Bologna; Clara Di Capua Bergamini (chimica) a Firenze; Ada Bolaffi (chimica biologica) e Mafalda Pavia (pediatria) a Milano; Angelina Levi (farmacologia) a Modena; Rachele Karina (pediatria) a Napoli; Enrica Calabresi (zoologia) a Pisa; Gemma Barzilai (ginecologia) e Fausta Bertolini (biologia) a Padova; Renata Calabresi (psicologia), Nella Mortara (fisica) e Maria Piazza (mineralogia) a Roma.