Sionismo

Il sionismo è un movimento politico internazionale il cui fine è l’affermazione del diritto alla autodeterminazione del popolo ebraico, inserendosi nel più vasto fenomeno del nazionalismo moderno.

Il movimento, nato alla fine del XIX secolo tra gli ebrei residenti in Europa, fu importante ma minoritario nel mondo ebraico per tutta la prima metà del XX secolo, per poi divenire maggioritario in seguito alla Shoah. Dopo la creazione dello Stato di Israele nel 1948, in cui oggi vive circa il 30% degli ebrei del mondo, il sionismo si è trasformato in movimento di sostegno internazionale alla costituzione di tale Stato, oltre a continuare il tradizionale aiuto all’immigrazione in Israele (aliyah). Oggigiorno, il termine “sionista” viene applicato a varie fazioni politiche israeliane, sia di sinistra che di destra, le quali hanno in comune il sostegno dello stato d’Israele come entità ebraica.

La stella di David è il simbolo del Sionismo

LE ORIGINI

Nel corso dei secoli, c’è sempre stata una corrente migratoria ebraica verso la Palestina, motivata essenzialmente da ragioni religiose. L’immigrazione sionista, di natura laica, è invece una conseguenza molto più tarda dell’emancipazione degli ebrei europei nel corso della rivoluzione francese (1789) e per tutto il XIX secolo fino alla rivoluzione russa (1917), e delle reazioni ostili alla conseguente tendenza degli ebrei all’assimilazione nelle varie società nazionali.

Il proto-sionismo si sostanzia nella fondazione nel 1860 dell’Alleanza Israelitica Universale guidata da Adolphe Crémieux, nella costruzione di un sobborgo ebraico di Gerusalemme finanziata dal filantropo sir Moses Montefiore nel 1861, nella pubblicazione nel 1862 di Roma e Gerusalemme ad opera del filosofo ebreo tedesco Moses Hess e di Derishat Zion ad opera del rabbino polacco-prussiano Zvi Hirsch Kalischer, nell’apertura nel 1870 di Mikveh Israel, la prima scuola agraria ebraica, a cura di Charles Netter dell’AIU, nella composizione nel 1878 di hatikvah (“La speranza”), inno del sionismo e poi dello stato di Israele.

Nella tradizione di Montefiore, a partire dal 1882, Edmond James de Rothschild divenne uno dei principali finanziatori del movimento sionista e acquistò il primo sito ebraico in Palestina, l’attuale Rishon LeZion; sempre dal 1882 anche Maurice de Hirsch fu un grande finanziatore di insediamenti, sia sionisti che territorialisti. È appunto dal 1882 che data la prima ondata di immigrazione sionista (Prima Aliyah), al cui inizio la comunità ebraica palestinese (Yishuv) contava 25.000 persone: la prima aliyah raddoppierà abbondantemente queste cifre.

L’idea di creare uno Stato puramente ebraico, in cui l’antisemitismo sia assente per definizione, circola dal 1880, con i movimenti di Bilu e degli “Amanti di Sion” (Hovevei Zion), i cui manifesti ideologici sono il laico Selbstemanzipation (“Auto-emancipazione”), scritto da Leon Pinsker nel 1882, e il religioso Aruchas Bas-Ammi, scritto dal rabbino Isaac Rülf nel 1883, oltre agli scritti precedenti di Kalischer.

Alcuni dei promotori di questa idea volevano fondare lo Stato nella storica terra d’Israele, chiamata anche Palestina, dove storicamente, e pure narrato nella Bibbia, vi erano stati i regni di Davide e di Salomone. Tuttavia, per questa terra non fu subito scelta la Palestina: c’era anche chi proponeva di creare uno Stato ebraico in altre parti del mondo, ad esempio in Argentina, Ecuador, Suriname, Amazzonia, Uganda, Kenya, Stati Uniti d’America, Canada, Australia. L’opzione di gran lunga più popolare restava però la Palestina, all’epoca governata dall’Impero Ottomano, la quale prevalse già dal 1905 e vinse definitivamente dopo il 1917.

Il fondatore del sionismo è oggi considerato Theodor Herzl, un giornalista ashkenazita assimilato suddito dell’Impero austro-ungarico. Nel 1895 Herzl fu inviato come corrispondente del suo giornale a Parigi per seguire il processo dell’affare Dreyfus (ufficiale francese di origini ebraiche accusato di tradimento), esploso nel 1894, che fu accompagnato da una feroce campagna di stampa francese che riproponeva stereotipi antisemiti. In seguito a questa esperienza Herzl si rese conto che l’assimilazione e l’integrazione degli ebrei in Europa non aveva dato frutti e che gli ebrei avevano bisogno di un proprio Stato, dove poter vivere in pace e sicurezza lontano dai pregiudizi e dalle false accuse tipici dell’antisemitismo.

La sua conclusione derivava dalla sua esperienza nell’Impero austro-ungarico: in una compagine nazionale eterogenea, come si presentava a fine Ottocento l’Impero asburgico, italiani, serbi, croati, ungheresi, cechi, slovacchi, polacchi galiziani, tedeschi di Boemia e di Transilvania, tutti avevano i propri rappresentanti nel Parlamento imperiale e potevano appellarsi a una propria “nazione” e a una “terra” che loro apparteneva, una “patria” dentro o fuori i confini dell’impero, tutti tranne gli ebrei, né gli altri popoli riconoscevano gli ebrei come parte di essi.

Herzl avrebbe sviluppato la sua idea e l’avrebbe tradotta in Der Judenstaat (“Lo Stato degli Ebrei”), un volume pubblicato all’inizio del 1896 senza conoscere gli scritti dei suoi predecessori e subito tradotto in varie lingue. All’immediato successo del volume e al dibattito suscitato Herzl fece seguire il primo Congresso Sionista Mondiale, che si tenne a Basilea dal 29 al 31 agosto 1897, in modo da costituire un movimento permanente. Il Programma di Basilea affermava che: “il sionismo si sforza di ottenere per il popolo ebraico un focolare garantito dal diritto pubblico in Palestina”. I metodi da adottare per il raggiungimento di questo obiettivo erano: 1) l’incoraggiamento della colonizzazione ebraica in Palestina; 2) l’unificazione e l’organizzazione di tutte le comunità ebraiche; 3) il rafforzamento della coscienza ebraica individuale e nazionale; 4) iniziative per assicurarsi l’appoggio dei diversi governi per realizzare gli obiettivi del sionismo.

Herzl si inserisce in una tradizione di pensiero di lingua tedesca iniziata con Hess, e in quella tradizione riunisce attorno a sé la prima generazione di leader sionisti (Max Bodenheimer, Max Nordau, Otto Warburg, David Wolffsohn), cui sono vicine anche personalità come Albert Einstein. Questa tradizione è quasi compattamente parte della corrente dei “Sionisti generali” (ossia non affiliati a movimenti specifici) di ispirazione liberale.

Le idee di Herzl si inseriscono in un movimento migratorio ebraico già in atto, causato, in Russia, dai pogrom degli anni 1881-1882 e poi degli anni 1903-1906. Secondo dati del 1930, dal 1880 al 1929 emigrano dalla Russia 2.285.000 ebrei, e, di questi, 45.000 in Palestina. La stragrande maggioranza preferisce recarsi altrove: 1.930.000 scelgono le Americhe, 240.000 l’Europa, i restanti l’Africa e l’Oceania. Dall’Austria, dall’Ungheria e dalla Polonia emigrano, dal 1880 al 1929, in 952.000: 697.000 nelle Americhe, 185.000 in altri Paesi europei, 40.000 in Palestina. Proporzioni analoghe si riscontrano fra i migranti provenienti da altri Paesi. In totale, durante questi decenni migrano 3.975.000 ebrei: 2.885.000 negli Stati Uniti, 365.000 nel resto delle Americhe (principalmente Argentina e Canada), 490.000 in Europa occidentale e centrale (specie Francia e Germania), e solo 120.000 in Palestina.

L’importanza dell’emigrazione dalle terre soggette all’Impero russo (oggi facenti parte di Lettonia, Lituania, Polonia, Bielorussia, Ucraina) porta naturalmente all’emergere di una leadership di tali origini nel movimento sionista, che deriva dall’esempio di Leon Pinsker. La prima generazione comprende nomi attivi in campo culturale (Ahad Ha’am, Eliezer Ben Yehuda, Aaron David Gordon) oltre che nella politica sionista (Chaim Weizmann, Nahum Sokolow, Leo Motzkin, Menahem Ussishkin, Nachman Syrkin), ma anche i primi rabbini che legittimano il sionismo in campo religioso (Abraham Isaac Kook, Moshe Leib Lilienblum, Samuel Mohilever, Yitzchak Yaacov Reines). Questi sionisti faranno parte di tutte le principali correnti del sionismo: non solo i sionisti generali, ma anche il sionismo socialista e il sionismo religioso e, decenni più tardi il nazionalismo espresso dal sionismo revisionista.

Nell’Ebraismo statunitense, importante più dal punto di vista del sostegno finanziario che dell’emigrazione, svolge un ruolo fondamentale il rabbino Solomon Schechter.

IMMIGRAZIONE NELLA PALESTINA OTTOMANA

Herzl fece invano appello ai ricchi filantropi ebrei perché appoggiassero le sue proposte, ma scoprì la tradizione proto-sionista dell’Europa orientale, che egli ignorava e che lo sostenne. Dal 29 al 31 agosto 1897 Herzl organizzò il primo Congresso Sionista a Basilea (Svizzera), dove creò l’Organizzazione Sionista (dal 1960 Mondiale), il massimo organismo politico ebraico fino alla istituzione dello Stato d’Israele.

Il congresso si chiuse approvando un programma che affermava la scelta politica, e non più semplicemente insediativa dell’Organizzazione Sionista:

«“Il sionismo persegue per il popolo ebraico una patria in Palestina pubblicamente riconosciuta e legalmente garantita.»

Nei primi anni di questo periodo, gli ultimi della sua vita, oltre a convocare tutti i successivi congressi, Herzl ottenne colloqui con vari capi di Stato (fra cui il Sultano ottomano Abdul-Hamid II, il Kaiser Guglielmo II, Re Vittorio Emanuele III e papa Pio X, oltre ai governi britannico e russo) per ottenere, invano, il loro assenso ufficiale al suo progetto. Inoltre, Herzl pubblicò il romanzo utopico Altneuland (“Terra vecchio-nuova” – 1902), che porta l’epigrafe “Se tu lo vorrai – non è una fiaba”.

L’Organizzazione Sionista funzionò fin dall’inizio secondo le regole della democrazia rappresentativa: gli iscritti (fin dall’inizio anche donne) pagavano una quota (shekel) ed eleggevano delegati a regolari congressi in Europa (annuali 1897-1901, biennali 1903-1913 e 1921-1939, quadriennali e a Gerusalemme dopo la creazione dello stato), dove veniva eletto un esecutivo di 30 consiglieri, che a loro volta eleggevano il presidente.[6]

Il Congresso era ed è soprannominato “il Parlamento del Popolo Ebraico”: nell’Organizzazione Sionista tutte le correnti sioniste (liberali, religiosi, socialisti) erano rappresentate, a tutti i livelli. In questi anni si forma la seconda generazione di leader sionisti (David Ben Gurion, Yitzhak Ben-Zvi, Ber Borochov, Berl Katznelson, Arthur Ruppin, Pinhas Rutenberg, Zalman Shazar, Iosif Trumpeldor, Meir Bar-Ilan, Vladimir Žabotinskij), quasi tutti, tranne Jabotinskj e Bar-Ilan, socialisti.

Non avendo ottenuto il sostegno ufficiale dell’Impero Ottomano, fino al 1917 l’Organizzazione Sionista perseguì l’obiettivo della costruzione di una patria mediante una strategia di immigrazione (aliyah) continua su piccola scala, anche mediante istituzioni quali:

Die Welt, il giornale del movimento sionista;

il Keren Kayemet LeYisrael (Fondo Nazionale Ebraico 1901), un ente non-profit per l’acquisto di terreni agricoli ed edificabili;

il Jewish Colonial Trust (1899), istituzione finanziaria, e la Anglo-Palestine Bank (1903 – dal 1950 Bank Leumi), che erogava prestiti ad agricoltori e imprese;

il Keren Hayesod (Fondo delle fondamenta – 1920), un’organizzazione-ombrello per la raccolta di fondi nella Diaspora al fine di finanziare le reti di infrastrutture in Israele.

La seconda ondata migratoria (circa 30.000 persone) parte dalla Russia per la Palestina fra il 1904 e il 1914: c’erano stati pogrom dal 1903 al 1906, sostenuti dalla pubblicazione dei “Protocolli dei Savi di Sion”, falso documento segreto ebraico e vero libello antisemita prodotto dalla polizia segreta zarista. Alcuni dei nuovi colonizzatori erano spinti da ideali socialisti e crearono dei Kibbutz, delle comunità organizzate secondo criteri collettivisti e comunistici, in cui la popolazione viveva dell’agricoltura. Tuttavia il collettivismo e gli ideali comunistici erano riservati agli ebrei: vigendo la politica del ‘lavoro ebraico’, i kibbutz non accettavano (e non accettano) non ebrei fra i loro membri, applicando quindi una discriminazione da cui in realtà gli ebrei stessi volevano fuggire.

Con i fondi sionisti, e principalmente del Fondo nazionale ebraico, si acquistano terre dichiarate inalienabili da cui è esclusa la manodopera indigena; nasce una nuova nazione, con una propria lingua ed un’economia di stampo socialista-assistenziale che produce un rapido sviluppo della società a beneficio di tutti i cittadini, ebrei ed arabi.
Altri si sistemano nelle città o ne fondano di nuove: caratteristico è il caso di Jaffa e Tel Aviv, Tel Aviv era infatti un quartiere di Qoffa[si tratta di Giaffa?], ma il massiccio insediamento ebraico crebbe fino a far diventare l’antica città di Qoffa un sobborgo della nuova Tel Aviv.

I chaluzim, i “pionieri” dell’esodo sionista, non portarono in Palestina solo la loro forza lavoro, la loro famiglia, la loro cultura, ma importarono l’idea europea di “Nazione”. Tra gli immigrati ebrei si diffuse anche l’uso della lingua ebraica, la quale, relegata all’ambito religioso da duemila anni, non era più usata quotidianamente.

In piena Prima guerra mondiale, nell’imminenza dell’ingresso delle truppe britanniche a Gerusalemme, strappata all’esercito ottomano (dicembre 1917), il Regno Unito si impegnava, con una lettera del Segretario per gli Affari Esteri Arthur James Balfour a Lord Lionel Walter Rothschild (banchiere svizzero ed attivista sionista), membro del movimento sionista inglese, a mettere a disposizione del movimento sionista, in caso di vittoria, dei territori in Palestina per costituire un “focolare nazionale”. Il documento, scritto e mediato con la collaborazione del futuro presidente israeliano Chaim Weizmann (amico di Lord Rothschild e da poco eletto presidente della Zionist Federation of Great Britain and Ireland), porta il nome di Dichiarazione di Balfour 2 novembre 1917:

«Il governo di Sua Maestà vede con favore la costituzione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico, e si adopererà per facilitare il raggiungimento di questo scopo, essendo chiaro che nulla deve essere fatto che pregiudichi i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche della Palestina, né i diritti e lo status politico degli ebrei nelle altre nazioni»

MANDATO DELLE NAZIONI UNITE E NASCITA DELLO STATO DI ISRAELE

Dopo aver occupato la regione nel corso della prima guerra mondiale, e aver ottenuto dall’Impero Ottomano il riconoscimento della conquista nel trattato di Sèvres (agosto 1920), l’Impero Britannico chiese e, il 24 luglio 1922, ottenne dalla Società delle Nazioni un Mandato sulla Palestina, che includeva anche l’odierna Giordania.

Nel frattempo si era già verificata una forte immigrazione (Terza Aliyah) principalmente dalla Russia sconvolta dalla rivoluzione e dalla guerra civile.

In conformità con l’articolo 4 del Mandato, e dopo l’assenso del Congresso Sionista, la comunità ebraica in Palestina (Yishuv) costituì nel 1923 HaSochnut HaYehudit (l’Agenzia Ebraica) come organo di autogoverno, che nel 1929 fu riconosciuto dai britannici ricevendo poteri para-statali: gestione di scuole, ospedali, infrastrutture, eccetera (e, clandestinamente, formazione di Haganah). Nel 1924 Edmond James de Rothschild fondò la Palestine Jewish Colonization Association (PICA), che comprò più di 125.000 acri (560 km2) di terreno, continuando dopo di lui l’opera che egli aveva intrapreso oltre quarant’anni prima. Tutto ciò favorì una nuova ondata migratoria (Quarta Aliyah), proveniente soprattutto dall’Europa orientale. In questi anni, in cui inizia la costruzione dello Stato, si forma la terza generazione di leader sionisti, fra cui Abba Ahimeir, Haim Arlozoroff, Levi Eshkol, Nahum Goldmann, Uri Zvi Greenberg, Golda Meir, Moshe Sharett. Nel 1925 nasce la corrente revisionista, ad opera di Vladimir Žabotinskij, in reazione ai primi scontri con gli arabi e alla decisione britannica di chiudere la Transgiordania (oggi Giordania) all’insediamento ebraico (1922) e in opposizione all’atteggiamento conciliante delle altre correnti sioniste.

La popolazione araba in Palestina aumentò con l’arrivo di immigrati dai paesi circostanti, spinti dai salari più elevati di quelli dei loro paesi d’origine. I notabili arabi palestinesi rifiutarono la proposta britannica di creare un’Agenzia Araba, con poteri analoghi a quelli dell’Agenzia Ebraica. Le prime proteste arabe relative all’immigrazione ebraica si registrano verso la fine del XIX secolo, ma i primi scontri si ebbero solo negli anni ’20, a Gerusalemme (1920) e a Giaffa (1921).

Negli anni successivi al 1930 l’immigrazione ebraica aumentò notevolmente (Quinta Aliyah), per via dell’alto numero di ebrei che abbandonavano la Germania a causa dell’ascesa al potere di Adolf Hitler ed in seguito alle sue leggi razziali. La maggior parte dei paesi del mondo tenne chiuse le porte ai profughi ebrei; gli Stati Uniti ridussero le possibilità di immigrazione nel 1924 e, sostanzialmente, li escluse nel 1932 a causa della Grande Depressione. La Palestina divenne così, per gli ebrei d’Europa, uno dei pochi rifugi possibili. Tra il 1929 e il 1939 si verificarono in Palestina vasti scontri tra ebrei e arabi – i moti del 1929 e la cosiddetta “Grande Rivolta” del triennio 1936-1939 – sedati duramente dall’esercito britannico, con alto numero di vittime da entrambe le parti. L’antica comunità ebraica di Hebron fu distrutta durante le ostilità del 1929.

Nel 1939 i britannici, dopo aver proposto inutilmente diversi piani di divisione del territorio mandatario in due Stati distinti (elaborati dalla Commissione Peel nel 1937, dalla Commissione Woodhead nel 1938 e dalla Conferenza di St. James nel 1939), emisero una legge, il Libro Bianco, che limitava l’immigrazione ebraica a 75.000 persone per una durata di 5 anni, cifra a cui sarebbero stati sottratti gli eventuali immigrati illegali individuati, e che, dal punto di vista del movimento sionista, sembrava favorire le ragioni degli arabi. Oltre a questo i britannici, ritenendo, dopo i tentativi falliti, che una spartizione sarebbe risultata impossibile perché rifiutata sia dal movimento sionista sia dalla popolazione palestinese di origine araba, previdero la creazione di un unico Stato federale entro il 1949, dove i coloni ebraici sarebbero tuttavia stati una minoranza (stimata, anche in base alle restrizioni sull’immigrazione, in un terzo della popolazione totale).

Nello stesso anno scoppiò la Seconda guerra mondiale e aumentò enormemente il numero di ebrei che cercavano rifugio in Palestina per sfuggire allo sterminio nazista. Molti di loro dovettero entrare illegalmente (Aliyah Bet). Le organizzazioni ebraiche più moderate, come l’Haganah di David Ben Gurion, si limitarono agli scontri con gli arabi, mentre le organizzazioni ebraiche più estremistiche arrivarono ad aggredire apertamente i britannici, militari e civili. Fra queste ultime si distinsero l’Irgun di Menachem Begin e la Banda Stern, descritte dai britannici come organizzazioni terroristiche.

Nel maggio 1947 i britannici annunciarono il disimpegno dal mandato sulla Palestina e il suo abbandono entro un anno. Il 15 maggio 1947 fu costituito l’UNSCOP (United Nations Special Committee on Palestine) che il 3 settembre raccomandò a maggioranza la divisione della Palestina occidentale (quella orientale aveva già formato lo stato arabo di Giordania) in due stati di simile estensione, uno a maggioranza ebraica e l’altro a maggioranza araba, mentre Gerusalemme sarebbe diventata una città internazionale (Corpus separatum) controllata dall’ONU.[10] Secondo la commissione dell’ONU che si occupò di analizzare la situazione in Palestina e di elaborare la spartizione, la popolazione ebraica contava ormai circa 608.000 persone, mentre quella araba circa 1.237.000. Il 29 novembre 1947 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite votò (33 sì, 10 no, 13 astenuti) la risoluzione 181, contenente la divisione della Palestina.

Le principali organizzazioni ebraiche accettarono la proposta (rifiuti provennero solo dai gruppi più estremisti che puntavano alla costituzione della Grande Israele, comprendente tutto il territorio mandatario e parte delle nazioni confinanti) mentre la popolazione festeggiava nelle strade la notizia. Invece la popolazione araba e i paesi arabi circostanti la rifiutarono, per ragioni di principio religiose (sia islamiche che cristiane) e politiche, oltre che per ragioni pratiche (tra le principali critiche da parte araba il fatto che agli ebrei, rappresentanti solo un terzo della popolazione, fosse assegnato il 55% del territorio, che questo comprendesse le principali fonti idriche della regione e che lo stato arabo non avesse sbocchi sul Mar Rosso). Gli arabi chiedevano uno stato unico, con il rientro in Europa di tutti gli ebrei immigrati negli ultimi decenni.

Le nazioni arabe, contrarie alla suddivisione del territorio e alla creazione di uno stato ebraico, fecero ricorso alla Corte internazionale di giustizia, sostenendo la non competenza dell’assemblea generale delle Nazioni Unite nel decidere la ripartizione di un territorio andando contro la volontà della maggioranza (araba) dei suoi residenti, ma il ricorso fu respinto. Dopo un anno di scontri interni alla popolazione e di scaramucce sui confini con i paesi arabi, il 14 maggio 1948, termine del mandato, l’Agenzia Ebraica dichiarò l’indipendenza dello Stato d’Israele; lo stesso giorno il neonato Stato di Israele fu attaccato apertamente dalla Siria, dall’Egitto, dall’Iraq, ai quali si aggiunse in seguito la Giordania.

Le forze ebraiche, che inizialmente avevano conosciuto gravi difficoltà nell’equipaggiarsi ma che erano meglio organizzate e che ricevettero continui rinforzi provenienti dall’immigrazione nuovamente possibile, vinsero la guerra, che si concluse con una sequenza di armistizi, ma nessun trattato di pace. In seguito alla guerra, Israele conquistò un territorio più ampio di quello promesso dalle Nazioni Unite, mentre la Giordania occupò la palestinese Cisgiordania, e l’Egitto occupò la Striscia di Gaza, parimenti palestinese. Gerusalemme restò divisa tra Israeliani e Giordani. Questo assetto territoriale rimase intatto fino al 1967.

Lo stato di Israele fu riconosciuto alla nascita dalle Nazioni Unite e da buona parte del mondo, ma la totalità dei paesi arabi rifiutò di riconoscere la sua esistenza (rinunciando quindi a costituire lo Stato arabo in Cisgiordania e Gaza), e per la maggior parte ancora la rifiuta. Nel mondo arabo, e in buona parte del mondo islamico, la creazione di Israele viene vista come un atto di aggressione contro il mondo arabo, il furto di un territorio ed un atto di spossessamento nei confronti dei Palestinesi. Nel 1949 la Lega Araba approvò due risoluzioni: nella prima si vietava ai governi di tutti gli Stati membri di concedere la cittadinanza ai profughi palestinesi, nella seconda si ordinava ai governi degli Stati membri di facilitare l’espulsione degli ebrei dalle proprie terre.

Le forze ebraiche, che inizialmente avevano conosciuto gravi difficoltà nell’equipaggiarsi ma che erano meglio organizzate e che ricevettero continui rinforzi provenienti dall’immigrazione nuovamente possibile, vinsero la guerra, che si concluse con una sequenza di armistizi, ma nessun trattato di pace. In seguito alla guerra, Israele conquistò un territorio più ampio di quello promesso dalle Nazioni Unite, mentre la Giordania occupò la palestinese Cisgiordania, e l’Egitto occupò la Striscia di Gaza, parimenti palestinese. Gerusalemme restò divisa tra Israeliani e Giordani. Questo assetto territoriale rimase intatto fino al 1967.

Lo stato di Israele fu riconosciuto alla nascita dalle Nazioni Unite e da buona parte del mondo, ma la totalità dei paesi arabi rifiutò di riconoscere la sua esistenza (rinunciando quindi a costituire lo Stato arabo in Cisgiordania e Gaza), e per la maggior parte ancora la rifiuta. Nel mondo arabo, e in buona parte del mondo islamico, la creazione di Israele viene vista come un atto di aggressione contro il mondo arabo, il furto di un territorio ed un atto di spossessamento nei confronti dei Palestinesi. Nel 1949 la Lega Araba approvò due risoluzioni: nella prima si vietava ai governi di tutti gli Stati membri di concedere la cittadinanza ai profughi palestinesi, nella seconda si ordinava ai governi degli Stati membri di facilitare l’espulsione degli ebrei dalle proprie terre.

DAL 1949 AD OGGI

Il 23º Congresso sionista (1951), fu il primo dopo l’indipendenza e per la prima volta si tenne non in Europa ma a Gerusalemme. Il congresso si aprì simbolicamente davanti alla tomba di Herzl, appena traslato da Vienna secondo il suo testamento. Poiché con l’istituzione dello Stato di Israele il “programma di Basilea” era stato realizzato, il congresso ridefinì i compiti del movimento nel “programma di Gerusalemme” come segue:

«consolidamento dello Stato di Israele, riunione degli esiliati in Terra di Israele, tutela dell’unità del Popolo Ebraico»

Per quanto riguardava il rapporto fra Stato di Israele e Organizzazione Sionista, il congresso approvò una risoluzione che chiedeva allo stato di riconoscere l’organizzazione come organo rappresentativo del popolo ebraico in materia di partecipazione organizzata della Diaspora alla costruzione di Israele. Nel 1952 la Knesset approvò una legge in tal senso.

Israele, indipendente dal maggio 1948 come “Stato Ebraico” secondo le Nazioni Unite (risoluzione 181 del 29 novembre 1947), dal 1950 riconosce con la Legge del ritorno il diritto di qualsiasi ebreo del mondo di immigrare in Israele, semplicemente richiedendolo, e di ricevere la cittadinanza non appena arrivato. L’atto di immigrazione in Israele nel caso di un ebreo viene chiamato Aliyah, che in ebraico significa “ascesa”.

Durante gli anni ’50 e ’60, 856.000 ebrei provenienti dal Nord Africa e dal Vicino Oriente emigrarono in Israele in seguito all’espulsione, di diritto o più spesso di fatto (confisca dei beni), dai paesi di origine, di questi 260.000 solo negli anni 1948-1951. Nel 1945 tra 758.000 e 866.000 ebrei vivevano in comunità insediate nel mondo arabo; 50 anni più tardi erano meno di 10.000

Israele ha sempre negato, invece, il ritorno ai profughi arabi palestinesi, anche in considerazione che gli ebrei erano stati espulsi da tutti i paesi arabi, in un numero non inferiore a quello dei profughi palestinesi, con la differenza che i profughi palestinesi si sono spostati in seguito all’aggressione dei Paesi arabi contro Israele nel 1948, mentre nessuno aveva aggredito i paesi arabi.

Sia ai 711.000 della guerra del 1948[20] (per due terzi fuggiti in Cisgiordania e a Gaza), e sia a quelli della guerra del 1967, argomentando che a loro è riservato lo “Stato Arabo” previsto dall’ONU nel 1947 e che comunque il loro numero equivale a quello dei profughi ebrei dai paesi arabi. Per entrambe le ragioni, quindi, spetterebbe a questi ultimi farsi carico dei rifugiati. Nel settembre 1948 il conte Folke Bernadotte, incaricato dalle Nazioni Unite e attivo per il ritorno dei profughi palestinesi nelle loro case, fu assassinato dal gruppo Lehi; Israele arrestò alcuni appartenenti alla banda che furono subito rilasciati.

Il diritto dei profughi a tornare in patria è sancito dall’articolo 13 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, approvata nel dicembre 1948. Questo diritto non è stato sempre applicato; dopo la seconda guerra mondiale, ad esempio, non è stato garantito ai profughi italiani dall’Istria e dalla Dalmazia, né ai profughi tedeschi dai Sudeti cechi e dalla Prussia e Slesia polacche, né ai profughi polacchi dalla Bielorussia, né ai profughi albanesi dalla Ciamuria, né, naturalmente, ai profughi ebrei dai paesi arabi degli anni ’40, ’50 e ’60. Tutti questi profughi sono stati riassorbiti dai paesi di destinazione. Di recente, è stato applicato, ma con successo solo parziale, alle popolazioni fuggite nel corso delle guerre interetniche in Bosnia, Ruanda e Burundi e agli scampati alla guerra nell’ex Jugoslavia Il diritto al rientro in patria non viene garantito neppure ai profughi arabi dalla terra poi diventata Israele, molti dei quali vivono tuttora in campi in Cisgiordania (territorio sotto la responsabilità israeliana fin dal giugno del 1967), Libano, Siria e altri paesi arabi, che, ad eccezione della Giordania, hanno rifiutato loro la cittadinanza e spesso l’integrazione sociale.

In seguito alla conquista e all’occupazione militare della Cisgiordania e della Striscia di Gaza avvenuta nel 1967 in seguito alla guerra dei sei giorni, sono stati costruiti nuovi insediamenti ebraici nei Territori Occupati su terra confiscata ai palestinesi. Ad oggi vi abitano più di 450.000 coloni. Alcuni di loro sono motivati dalla credenza religiosa che l’intera Terra di Israele sia stata promessa da Dio agli Ebrei e che cederne anche solo un pezzo costituisca un peccato. Altri invece sono mossi da considerazioni più semplici, quali il minor costo della vita, dal momento che le colonie ricevono ingenti finanziamenti statali.

Queste colonie, inaccessibili alla maggioranza dei palestinesi (fanno eccezione coloro che sono ammessi a lavorarvi, secondo fonti filo-palestinesi in condizioni molto peggiori di quelle di lavoratori israeliani di pari livello [2]), hanno attirato condanne da parte dei Palestinesi e da quasi tutto il mondo. Chi si oppone alla creazione delle colonie paragona spesso la situazione a quella dell’apartheid sudafricano. Fra questi vanno ricordati l’arcivescovo Desmond Tutu  e l’inviato ONU per i diritti umani John Dugard, che considera lo stato delle cose ancora peggiore , l’ex presidente statunitense Jimmy Carter , le organizzazioni israeliane che lottano per i diritti umani e conoscono la situazione sul terreno, come B’Tselem.

Israele e le organizzazioni sioniste sostengono che ritenere gli ebrei collettivamente responsabili di quanto compiuto dallo Stato di Israele sia una forma di antisemitismo; questa loro opinione è stata accolta dall’EUMC (European Monitoring Committee on Racism and Xenophobia). Durante la seconda guerra del Libano, nell’agosto 2006, il Primo ministro israeliano, Ehud Olmert, ha tuttavia affermato di ritenere che tale guerra fosse combattuta non solo da tutti gli Israeliani, ma da tutti gli ebrei. Non mancano gli ebrei e le organizzazioni ebraiche che definiscono una tale frase, così come le espressioni che offuscano la distinzione fra sionisti ed ebrei, estremamente pericolosa per gli Ebrei medesimi.

Israele, che attualmente conta più di sette milioni di abitanti, si autodefinisce uno “Stato ebraico”. Le due lingue ufficiali sono l’ebraico, una lingua che è stata completamente rivitalizzata dopo più di due millenni di uso esclusivamente liturgico, e l’arabo. Nella pratica l’inglese è più diffuso dell’arabo e la lingua russa sta prendendo piede. La società è divisa su numerosi temi tra la componente religiosa e quella laica. I servizi di trasporto pubblico (con l’eccezione di Haifa) non funzionano di sabato e nelle altre feste ebraiche. Il potere degli ebrei ultraortodossi è in aumento: in alcuni casi (raramente corretti) viene imposta la separazione fra uomini e donne su autobus in servizio pubblico. Fino al 1967, lo Stato di Israele fu sostenuto, nel mondo, anche dall’Unione Sovietica e dalla sinistra in genere. Ora i sionisti più accesi si trovano nella destra, fra i neocons statunitensi e le organizzazioni nazionaliste, come il British National Party.

Durante gli anni ’90 è emigrato in Israele circa un milione di persone dall’ex-Unione Sovietica. Molti di questi ultimi hanno con l’Ebraismo legami familiari non riconosciuti dalla legge religiosa (il padre ma non la madre) e non sono mancati i casi di praticanti del Cristianesimo ortodosso. Si suppone che molti di questi siano emigrati in Israele per sfuggire dalle condizioni economiche e sociali molto dure dei paesi di origine. Negli ultimi anni, si è verificata anche una crescente immigrazione di clandestini provenienti dall’Africa e dall’Asia.
Ancora oggi l’immigrazione sionista in Israele è incoraggiata e continua, anche se i flussi più rilevanti si sono avuti subito dopo l’indipendenza dello stato (1948-1951), per il rimpatrio dei sopravvissuti alla Shoah, per l’espulsione degli ebrei dai paesi arabi e a causa del crollo del sistema sovietico in Europa Orientale (1990-1991).

CARATTERISTICHE

Il termine deriva dal monte Sion (in ebraico: ציון, Tzi-yon), il primitivo nucleo della città di Gerusalemme. “Gerusalemme” deriverebbe dalle radici ur, cioè altura, montagna, e shlm, pace: quindi monte (poi città) della pace. Già al tempo del biblico re Davide (a.C.) “Sion” è una sineddoche per “Gerusalemme” e persino per “Terra d’Israele” (spesso nella Bibbia gli israeliti sono detti “figli e figlie di Sion”). Il nome di “Sion”, meno altisonante, più popolano di Gerusalemme, è rimasto vivo nella memoria delle genti, utilizzato soprattutto nella poetica, affiancandolo più spesso a figure femminili, agili ed eteree.
La figura da “desiderare” è stata nel tempo convertita, durante la diaspora ebraica, nella Terra promessa, casa perduta tanto bramata. Il Sionismo ha reso più pragmatico questo sogno romantico.

Il termine “sionismo”, a indicare il nazionalismo ebraico, fu coniato nel 1890 dall’editore ebreo austriaco Nathan Birnbaum nella sua rivista Selbstemanzipation (“Autoemancipazione”), la quale riprendeva il titolo di un libro di Leon Pinsker del 1882.

In questo senso, il sionismo è il movimento nazionale ebraico che chiede una patria specificamente in Palestina: il movimento nazionalista ebraico che chiede una patria senza preferenze sul luogo è noto come “Territorialismo” (guidato da Israel Zangwill), mentre l'”Autonomismo” chiedeva l’autonomia (non l’indipendenza) politica degli ebrei nei loro tradizionali territori di insediamento in Europa centro-orientale. Tutte le varie proposte di insediamento in regioni extra-europee fatte alla fine dell’Ottocento fallirono o furono rifiutate, così come la richiesta di autonomia, contribuendo solo a meglio precisare natura e ruolo del sionismo.

Il sionismo è un movimento laico: di qui gli scontri con molti Ebrei osservanti. Infatti, per l’ebraismo ortodosso il regno di Israele deve ristabilirsi all’arrivo del Messia. Per accelerare la venuta di questo non c’è che un sistema: obbedire alla volontà divina, vale a dire adempiere ai precetti (mitzvot) stabiliti nella Torah. Si opposero al sionismo anche gli ebrei riformati (Reformed Jews), sostenendo che gli ebrei costituiscono una comunità religiosa, non un popolo, e che il regno messianico atteso non è che una metafora per un futuro di libertà religiosa, di giustizia e di pace, da realizzarsi nelle varie società. In campo laico, si opposero il Bund, che lottava per la giustizia sociale e l’eguaglianza dei diritti in Europa orientale, e gli ebrei di sinistra, per i quali l’antisemitismo si combatte lottando per il socialismo.

Una delle manifestazioni di questa opposizione fu che i sionisti tendevano a rifiutare la lingua yiddish, e a maggior ragione le lingue nazionali europee, a favore della rinascita dell’antica lingua ebraica, da tempo in uso solo nel culto, come madrelingua ad opera di Eliezer Ben Yehuda nell’orale, Mendele Moicher Sforim nella prosa e Haim Nachman Bialik nella poesia.

Una variegata opposizione al sionismo (antisionismo) è sempre esistita in ambito ebraico, nonostante la condivisione dell’ideale sionista sia largamente maggioritaria. Questa opposizione minoritaria ebraica è divenuta più visibile a partire dalla guerra dei sei giorni, anche in connessione alla contemporanea crescita di tale orientamento critico nel mondo, soprattutto ma non soltanto islamico, fattosi più vasto in genere a seguito della prima guerra del Libano e della seconda intifada.

RAPPORTI COI NATIVI PALESTINESI

Durante i secoli precedenti, si erano già verificati casi di ebrei europei che emigravano verso la Palestina ed in particolare Gerusalemme, la città santa della religione ebraica. Nella regione era quasi sempre esistita una minoranza ebraica, soprattutto a Gerusalemme e a Hebron, le due città più importanti per gli ebrei da un punto di vista religioso. Ciò nonostante, all’epoca della nascita del movimento sionista la grande maggioranza della popolazione della regione rimaneva araba e musulmana, con consistenti minoranze di cristiani arabi o armeni.

I sionisti non vedevano un problema in questo dato di fatto, sostenendo che la popolazione araba avrebbe tratto giovamento dall’immigrazione di europei in vasta scala, che avrebbe rivitalizzato la regione, e credendo che comunque la popolazione araba non costituisse in nessun modo un popolo con una propria identità nazionale, in quanto si sarebbe integrata, sempre secondo sionisti, nel nascituro stato (Herzl, Congresso di Basilea).

Il movimento sionista è stato oggetto di molte critiche e censure da parte dei suoi oppositori proprio per l’indifferenza nei confronti della popolazione araba presente nella regione da oltre 13 secoli; ma la critica più diffusa è piuttosto quella di aver mirato, fin dall’inizio, alla decisione di espellere i palestinesi dalla terra in cui abitavano. Il comportamento sionista è stato assimilato da alcuni ad un tipico atteggiamento colonialista europeo, anche se da questo, per lo meno dagli anni ’20, si è differenziato per una caratteristica: quella di impiegare solo manodopera ebraica, non palestinese. Lo scopo non è quello di sfruttare i nativi, come è nel colonialismo classico, ma di sostituirsi a loro.

In molti rispondono che la Palestina era solo una provincia povera e dimenticata dell’Impero ottomano prima dell’arrivo dei sionisti, e che gli immigrati ebrei, grazie all’Agenzia Ebraica, comprarono inizialmente la terra da latifondisti arabi, spesso assenteisti e ben contenti di vendere appezzamenti di terra ai sionisti spuntando prezzi altissimi, del tutto indifferenti alle sorti dei contadini arabi della regione. Fino ad allora, l’economia locale era feudale: se la terra passava dal latifondista A a quello B, la differenza per i contadini (fallāḥīn) locali consisteva nel pagare le imposte al nuovo proprietario.

Secondo lo studioso statunitense di demografia Justin McCarthy, che si rifà ai documenti dell’Impero Ottomano, nel 1914 erano presenti in Palestina 657.000 abitanti di religione musulmana, 81.000 abitanti di religione cristiana e 59.000 ebrei. Il rapporto della lega delle Nazioni Interim Report on the Civil Administration of Palestine del luglio 1921[36] afferma che nell’area vivevano circa 700.000 abitanti (evidenziando che questo numero era minore di quello che popolava la Galilea ai tempi di Gesù), suddivisi tra 235.000 nelle città e 465.000 negli insediamenti minori e nelle aree rurali. Di questa popolazione i 4/5 (circa 560.000) erano musulmani (tra cui alcuni beduini arabi), mentre tra i rimanenti (che parlavano comunque arabo come lingua di riferimento) circa 77.000 erano cristiani (principalmente ortodossi) e circa 76.000 ebrei. Di questi ultimi si diceva che erano entrati in Palestina nei precedenti 40 anni, giunti sia per motivazioni religiose, sia per sfuggire alle persecuzioni che stavano avvenendo nell’impero Russo, mentre prima del 1850 erano presenti solo una manciata di ebrei (“Prior to 1850 there were in the country only a handful of Jews”). Il primo censimento effettuato dall’autorità mandataria Britannica poco tempo dopo l’indagine della Lega delle Nazioni, nel 1922, riportava la presenza di 757.182 abitanti, di cui 590.890 musulmani (139.074 nelle aree cittadine e 451.816 nelle aree rurali), 83.794 ebrei (68.622 e 15.172) e 82.498 cristiani ed altre minoranze (56.621 e 25.877).

RUOLO DELLA DIASPORA

Non tutti gli ebrei del mondo sono (e sono stati) favorevoli al Sionismo. Inizialmente la maggioranza degli ebrei era indifferente o contraria. La maggioranza del mondo ebraico considerava un’eresia religiosa l’idea di rientrare in massa in Israele prima dell’arrivo del Messia.
I molti ebrei socialisti o comunisti credevano che solo attraverso la rivoluzione sociale si potesse far cessare l’antisemitismo e tutte le altre forme di intolleranza razziale.

Dopo la Shoah la maggior parte degli ebrei del mondo occidentale si schierò a favore della creazione di Israele ed alcuni cercarono di aiutare finanziariamente il neonato Stato con donazioni filantropiche. Gli ebrei arabi delle comunità nordafricane e vicino-orientali, in maggior parte ebrei sefarditi, rimasero indifferenti al progetto sionista, ma in seguito all’ostilità araba nei loro confronti, molti di loro emigrarono in Israele durante gli anni ’50 e ’60.

La maggior parte degli ebrei della Diaspora sente oggi un senso di attaccamento e di identificazione con Israele anche se non sono mancate le critiche contro la politica degli ultimi anni nei confronti della popolazione palestinese; soprattutto la costruzione di nuovi insediamenti ha destato perplessità perfino nei più accesi sostenitori dello Stato ebraico. Negli ultimi tempi le critiche sono diventate più diffuse, coinvolgendo anche chi, fino a poco tempo prima, era stato sionista e addirittura alcuni di coloro che si dichiarano ancora tali.

SOSTEGNO

Il sostegno al ritorno degli ebrei in “terra di Israele” da parte di non-ebrei (specialmente cristiani) è antecedente all’organizzazione formale del movimento sionista.

In campo politico furono filo-sionisti il presidente Sun Yat-sen (Cina), i presidenti John Adams e Woodrow Wilson (Stati Uniti), la Regina Vittoria e Re Edoardo VII e i primi ministri David Lloyd George e Arthur Balfour (Regno Unito), il generale Jan Smuts (Sud Africa), il presidente Tomáš Masaryk (Cecoslovacchia),[senza fonte] l’ambasciatore Cambon (Francia), gli intellettuali George Eliot (Regno Unito), Fridtjof Nansen (Norvegia), Benedetto Croce (Italia) e Henry Dunant (Svizzera, fondatore della Croce Rossa e autore delle Convenzioni di Ginevra).

In campo religioso molti dei nomi sopra indicati motivarono il sostegno con la propria fede cristiana, a questi si aggiunge il generale Orde Charles Wingate e non pochi funzionari del Mandato britannico. Da metà anni ’70 sono aumentate anche le voci filo-sioniste fra gli arabi cristiani, un tempo compatti nel loro antiebraismo religioso.

Importanti, fra i sostenitori del sionismo, sono alcune componenti del Protestantesimo anglosassone definite sionismo cristiano che hanno un notevole peso elettorale e, negli Stati Uniti, appoggiano i neocons. Tra i sionisti cristiani vi sono anche alcuni gruppi fondamentalisti che credono che il ritorno degli ebrei nella Terra Santa e la fondazione dello Stato di Israele nel 1948 siano il compimento di quanto scritto nel libro dell’Apocalisse; questi gruppi ritengono che il ritorno degli ebrei debba precedere il ritorno sulla terra (considerato imminente) di Cristo. Questi manderà all’inferno gli ebrei che non credono in lui, salvando quelli che si convertiranno al Cristianesimo.

Malgrado questa teologia e questa escatologia nettamente antiebraica, non solo i sionisti cristiani statunitensi sostengono lo Stato di Israele, ed in particolare il Likud, il governo israeliano ha dato loro una sede in una delle piazze più importanti della Città Vecchia di Gerusalemme.

Anche tra i musulmani vi è una tradizione filo-sionista, pur fortemente minoritaria. Ne fecero parte, anche per ragioni politiche (anti-ottomane) ed economiche, Al-Husayn ibn Ali (sceriffo della Mecca) e i suoi figli Abd Allah I di Giordania e Faysal I re d’Iraq, oltre (anche con finalità anti-arabe) allo Scià Qajar persiano Nasser al-Din Shah e a figure curde e berbere. Il recente filone che si appoggia a interpretazioni del Corano è presente solo fra i musulmani non-arabi anche occidentali.

CRITICHE

Durante gli anni sessanta buona parte dei movimenti di liberazione nazionale del Terzo Mondo identificarono il sionismo con una forma di colonialismo. Il sostegno degli Stati Uniti ad Israele, sempre più forte dopo la guerra dei sei giorni, rinforzò questa tesi. Anche l’Unione Sovietica, dopo l’appoggio iniziale dato ad Israele, si schierò a favore dei paesi arabi e condannò la politica di Israele e le sue basi costitutive.

Nel 1971 divenne segretario generale delle Nazioni Unite Kurt Waldheim, accusato di avere un passato nazista e persino di crimini di guerra, ma assolto non solo per aver semplicemente combattuto nella Wehrmacht in Francia durante la Seconda guerra mondiale senza che fosse provato il minimo coinvolgimento in attività criminose, ma grazie anche alla efficace difesa che ne fece Simon Wiesenthal, noto per aver indagato per tutta la sua vita sulle criminose attività dei nazisti. Le Nazioni Unite in una risoluzione del 1975 equipararono il sionismo al razzismo, ma la risoluzione fu poi ritirata nel 1991, come condizione da parte di Israele per partecipare alla Conferenza di Madrid.

Nella sinistra europea e statunitense, il sionismo è stato sovente visto come una forma di colonialismo (ciò è in parte dovuto all’occupazione della Cisgiordania nella guerra dei sei giorni), di razzismo e di fondamentalismo religioso. Questo punto di vista è stato ripreso anche dall’estrema destra, con una grande differenza di argomentazioni, sia in Europa che dalle frange fondamentaliste cristiane negli Stati Uniti e nelle ex-repubbliche sovietiche. Gli israeliani rispondono che gli Ebrei non si possono considerare dei colonialisti e cercano solo di trovare un luogo dove sfuggire a persecuzioni secolari che sembrano non aver fine. Quasi la metà degli ebrei israeliani è originaria di paesi europei. In base alla dichiarazione di indipendenza, Israele è aperto all’immigrazione ebraica da altri paesi ma al contempo:

«promuoverà lo sviluppo del Paese a beneficio di tutti i suoi abitanti; sarà fondato sui valori di libertà, giustizia e pace come annunciarono i profeti di Israele; assicurerà completa uguaglianza dei diritti sociali e politici di tutti i suoi abitanti indipendentemente da religione, razza o sesso; garantirà libertà di religione, coscienza, lingua, educazione e cultura; tutelerà i Sacri Luoghi di tutte le religioni»