La Notte dei Cristalli

Con notte dei cristalli (Reichskristallnacht o Kristallnacht, ma anche Reichspogromnacht o Novemberpogrom) viene indicato il pogrom condotto dagli «ufficiali del Partito Nazista, dai membri delle SA (Sturmabteilungen), e dalla Gioventù hitleriana» su istigazione di Joseph Goebbels, nella notte tra il 9 e 10 novembre 1938 in Germania, Austria e Cecoslovacchia. Nei pogrom del novembre 1938 furono bruciate o completamente distrutte almeno 1406 sinagoghe e case di preghiera ebraiche, distrutti i cimiteri, i luoghi di aggregazione della comunità ebraica, migliaia di negozi e di case private.
In quella notte, seguendo le direttive di Joseph Goebbels, il capo della Gestapo Heinrich Müller e il capo della polizia di sicurezza (Sicherheitspolizei) Reinhard Heydrich dettero ordini precisi perché la polizia non intervenisse e i vigili del fuoco si limitassero a proteggere le proprietà dei non ebrei. Tra le poche eccezioni ci fu l’agente Wilhelm Krützfeld, che intervenne per impedire che il fuoco distruggesse la nuova sinagoga di Berlino e subì una sanzione dai superiori in grado che approvavano l’azione antisemita.
A scopo intimidatorio e per prevenire ogni possibile ribellione, Müller e Heydrich ordinarono anche che si effettuassero tra gli ebrei degli arresti di massa di uomini giovani. Circa 30 000 ebrei furono così deportati nei campi di concentramento di Dachau, Buchenwald e Sachsenhausen. Relativamente al solo campo di Dachau, nel giro di due settimane vi vennero internati oltre 13 000 ebrei; almeno 185 furono coloro che vi persero la vita, mentre gli altri furono quasi tutti liberati nei mesi successivi, ma solo dopo esser stati privati della maggior parte dei loro beni.
Alla fine, secondo una ricerca recentemente condotta da storici tedeschi, il numero degli ebrei uccisi (un centinaio secondo le prime stime delle autorità naziste) fu di circa 400, tra i 1300 e i 1500 se si calcolano anche i circa 400 che morirono in episodi di violenza nei giorni successivi e i circa 700 tra gli arrestati, i quali trovarono la morte nei campi di concentramento.
L’origine della definizione “notte dei cristalli”, più correttamente “notte dei cristalli del Reich” è una locuzione di scherno che richiama le vetrine distrutte, fatta circolare da parte nazionalsocialista e diffusa poi anche nella storiografia comune. Dello stesso atteggiamento di beffa nei confronti dei cittadini classificati “ebrei” fece parte anche l’obbligo imposto alle comunità ebraiche di rimborsare il controvalore economico dei danni arrecati e di demolire a loro spese le sinagoghe danneggiate. Nessuno tra i vandali, assassini e incendiari venne processato, con l’eccezione di quattro nazisti, riconosciuti colpevoli di stupro, i quali furono condannati non per le violenze, ma per aver trasgredito le leggi razziali, che condannavano rapporti sessuali di tedeschi con “non ariani”.
La notte dei cristalli fu conseguenza diretta delle politiche antisemite avviate dal regime nazista fin dall’inizio della sua presa di potere nel 1933. Atti di violenza e di intimidazione divennero ben presto la norma. Si cominciò con il boicottaggio nazista del commercio ebraico (1º aprile 1933). Nel 1935 con le leggi di Norimberga la discriminazione razziale entrò nell’ordinamento giuridico del Terzo Reich. Lo stato nazista disponeva ora di censimenti accurati dei beni e della proprietà ebraiche; i negozi di proprietà ebraica erano contrassegnati con appositi cartelli; l’appartenenza alla “razza ebraica” era indicata per legge nei documenti d’identità personali dei cittadini tedeschi. Nel 1938 erano cominciati gli espropri e le demolizioni di alcune tra le più belle sinagoghe monumentali della Germania: la sinagoga vecchia maggiore di Monaco (giugno 1938), la sinagoga maggiore di Norimberga (agosto 1938) e la sinagoga vecchia di Dortmund (settembre 1938). Il 28 ottobre 1938, 17 000 ebrei di cittadinanza polacca erano stati espulsi dalla Germania.
Il timore di violenze era nell’aria, così come palpabile era la sensazione che ci si avviasse alla stretta finale. Già nel 1937 le autorità naziste indicavano nella confisca dei beni ebraici la strada maestra per coprire il debito dello Stato tedesco e si preparavano all’obiettivo dell’espulsione completa degli ebrei dalla vita economica tedesca. Vi erano tuttavia discussioni e divergenze anche all’interno degli apparati nazisti su come tali obiettivi dovessero essere perseguiti.
Il 7 novembre 1938 presso l’ambasciata tedesca di Parigi, il diciassettenne Herschel Grünspan (o Grynszpan) sparò, ferendo gravemente il diplomatico tedesco Ernst Eduard vom Rath. Secondo un’ipotesi già circolata all’epoca dei fatti e rilanciata nel 2001 dallo storico tedesco Hans-Jürgen Döscher, Grünspan e vom Rath avrebbero avuto una relazione omosessuale. Sembra tuttavia che si sia trattato solo di una voce fatta circolare dalla difesa per avvalorare la tesi del delitto passionale ed evitare quindi la condanna a morte dell’imputato. Il movente comunemente accettato furono le sofferenze imposte ai genitori di Grünspan nel loro esilio forzato dalla Germania alla Polonia nel 1938. I due non si conoscevano e vom Rath fu “scelto” solo casualmente per la vendetta. Comunque sia stato, due giorni dopo vom Rath morì a causa delle gravi ferite.
L’intento da parte delle autorità naziste di sfruttare l’incidente per una stretta finale contro gli ebrei del Terzo Reich fu subito evidente, rimaneva soltanto da deciderne le modalità.
Gli assalti e atti di violenza nei confronti di persone di religione ebraica, le loro abitazioni ed edifici di culto come “rappresaglia” per l’attentato di Parigi cominciarono immediatamente. Già a partire dal tardo pomeriggio del 7 novembre ci furono pogrom in molte località delle aree (Gau) elettorato d’Assia e Magdeburgo-Anhalt. Non si trattò di “atti spontanei di indignazione popolare” (la notizia dell’attentato a vom Rath raggiunse il pubblico tedesco solo la mattina del giorno successivo attraverso la stampa). Gli esecutori erano appartenenti alle SA e SS che però agirono vestiti in borghese.
La sera del 7 novembre furono danneggiate la sinagoga e altri edifici di persone di religione ebraica a Kassel e nei dintorni.
Lo stesso giorno l’agenzia ufficiale di stampa tedesca (Deutsches Nachrichtenbüro) emanò un comunicato perché all’indomani si desse all’attentato ampio rilievo sulla stampa, sottolineando in particolare come esso fosse destinato ad avere gravi ripercussioni sulla vita degli ebrei del Terzo Reich.
La sera dell’8 novembre fu data alle fiamme la sinagoga di Bad Hersfeld. Nei pressi di Fulda e di Melsungen furono danneggiate sinagoghe e abitazioni. Nel corso della nottata vi furono ripetuti maltrattamenti di persone di religione ebraica fino a giungere alla prima vittima nella località di Felsberg (Assia).
Nel pomeriggio del 9 novembre iniziarono i pogrom a Dessau, la sinagoga e l’edificio della comunità ebraica furono incendiati. Alle 19 iniziarono i danneggiamenti anche a Chemnitz.
Questi primi atti di violenza, compiuti con efficacia a livello regionale, servirono a convincere la dirigenza delle SA della propria capacità organizzative (in termini di uomini e mezzi) di poter ripetere tali azioni antisemite su scala nazionale. Servirono anche a definirne gli obiettivi (distruzione delle sinagoghe, devastazione capillare dei negozi e delle proprietà) e a sperimentarne i criteri di attuazione (in termini di uomini e mezzi).
Il 9 novembre ebbe luogo l’annuale incontro di Hitler e altri funzionari di partito con i reduci a Monaco di Baviera per l’anniversario del (fallito) putsch di Monaco del 9 novembre 1923. Verso le ore 22 il ministro della Propaganda Joseph Goebbels tenne un discorso molto acceso nel quale annunciò l’avvenuta morte di von Rath, incolpandone “gli ebrei”. Goebbels si riferì ai pogrom dei giorni precedenti e fece l’osservazione che il partito non organizzava azioni antisemite ma, laddove fossero accadute, non le avrebbe ostacolate.
I Gauleiter e comandanti delle SA presenti interpretarono queste parole come un via libera all’azione. Già dopo il discorso di Goebbels, attorno alle 22:30, telefonarono ai loro comandi locali, allertando le squadre. Si riunirono quindi nell’hotel “Rheinischer Hof” per dare ulteriori istruzioni per l’azione. Alla fine fu Goebbels stesso a diramare l’ordine che i negozi e le sinagoghe ebraiche dovessero essere incendiati e distrutti, e che i vigili del fuoco non sarebbero dovuti intervenire, se non per proteggere proprietà non-ebraiche.
Così lo stesso Goebbels ricorda l’evento nei suoi diari:
«Sottopongo la faccenda al Führer. Lui decreta: lasciare libero sfogo alle manifestazioni. Richiamare la polizia. Che una volta tanto gli ebrei sappiano cosa sia la rabbia popolare. Giusto. Trasmetto subito le necessarie direttive alla polizia e al partito. Poi ne parlo brevemente alla dirigenza del partito. Applausi scroscianti. Tutti si precipitano ai telefoni. Adesso il popolo agirà».
Alle 23:55 anche il capo della Gestapo Heinrich Müller inviò un flash telegrafico a tutte le stazioni di controllo della polizia di stato nel Reich ordinando ai servizi di sicurezza di non intervenire e avvertendo di prepararsi all’arresto di 20-30.000 ebrei del Reich.
Alle 1:20 di notte del 10 novembre, Reinhard Heydrich, nella sua veste di capo della polizia di sicurezza (Sicherheitspolizei) inviò un urgente telegramma alle sedi e alle stazioni della polizia di Stato e ai leader della SA nei loro vari distretti, che contenevano direttive precise. I rivoltosi “spontanei” non avrebbero dovuto prendere alcuna misura che mettesse in pericolo la vita e le proprietà di cittadini tedeschi non ebrei; dalla violenza dovevano essere protetti gli stranieri (anche gli ebrei stranieri); si dovevano rimuovere tutti gli archivi delle sinagoghe prima che esse fossero vandalizzate e incendiate, perché il materiale potesse essere acquisito dal servizio di sicurezza (Sicherheitsdienst). Gli ordini indicavano anche che i funzionari di polizia dovessero arrestare quanti più ebrei si potessero ospitare nelle carceri locali, preferibilmente uomini giovani e in buona salute. La misura era presa a scopo intimidatorio e per prevenire ogni possibile ribellione.
Secondo gli ordini ricevuti, membri delle SA e della Gioventù hitleriana entrarono immediatamente in azione in tutta la Germania e nei territori annessi. Molti di loro indossavano abiti civili, per sostenere la finzione secondo cui i disordini erano l’espressione di “una spontanea reazione dell’indignazione popolare”.
In quello che rimane il colpo più grave inferto al patrimonio artistico e culturale ebraico d’Europa, più di 1.400 sinagoghe e case di preghiera ebraiche (la quasi totalità di quelle presenti nel territorio del Terzo Reich) vennero incendiate, causando danni irreparabili e nella maggior parte dei casi la loro totale distruzione. Tra di loro erano alcuni tra i monumenti più importanti e significativi dell’architettura sinagogale tedesca, come il Leopoldstädter Tempel di Vienna, la sinagoga maggiore di Francoforte sul Meno, la sinagoga nuova di Hannover, la sinagoga nuova di Breslavia e molte altre. Migliaia di appartamenti e negozi (almeno 7.500) furono distrutti e saccheggiati. Le persone che vi si trovavano furono seviziate e ci furono casi di stupro. Nel corso dei pogrom si calcola oggi che vi furono circa 400 vittime (ufficialmente 91 secondo una lettera di Heydrich a Göring dell’11 novembre 1938).
I pogrom continuarono fino alla mattina del 10 novembre e in alcune zone rurali si protrassero fino nel pomeriggio. A partire dal 10 novembre e nei giorni seguenti circa 30 000 uomini di religione ebraica furono arrestati dalla Gestapo e dalle SS e deportati nei campi di concentramento di Buchenwald, Dachau e Sachsenhausen. La maggior parte di loro fu rilasciata solo quando si “dichiararono” disposti all’esilio. Parecchie centinaia persero la vita durante la detenzione.
L’appello dei prigionieri ebrei al campo di concentramento di Buchenwald dopo Kristallnacht
La “notte dei cristalli”, per le violenze e le distruzioni che vi furono compiute, rappresenta una tappa fondamentale, un punto di non ritorno, nel processo che porterà nel giro di pochi anni allo sterminio quasi completo dalla popolazione ebraica nei territori soggetti al Terzo Reich nel corso dell’Olocausto. Molti degli atti compiuti in quella notte (distruzione delle sinagoghe, confisca delle proprietà, uccisioni e arresti indiscriminate, invio nei campi di concentramento) saranno sistematicamente ripetuti negli anni a venire, incluso lo strumento del pogrom a scopo intimidatorio. Ma alla violenza aperta e incontrollata della piazza il regime imparerà a preferire come strumento più efficace la violenza controllata e nascosta dello Stato all’interno dei ghetti e dei campi di concentramento, nelle foreste dell’Europa dell’est e nelle camere a gas dei campi di sterminio.
Alcuni tra i maggiori burocrati nazisti furono apparentemente colti di sorpresa dalle dimensioni del pogrom istigato da Goebbels e condotto dalle SA, e criticarono le sommosse, i saccheggi e le violenze, non perché non ne condividessero le finalità antisemite e ancor meno per solidarietà alle vittime, ma per il modo con cui era stato compiuto, secondo modalità ritenute non del tutto conformi agli interessi nazisti. Il ruolo di “capro espiatorio” cadde completamente sul ministro della propaganda Joseph Goebbels, un giudizio che a livello storiografico proseguì fin dopo il 1945. La ricerca più recente, in particolare dopo la pubblicazione negli anni novanta dei diari di Goebbels, tende piuttosto a sottolineare la responsabilità collettiva che Hitler e l’intera dirigenza nazista ebbero nell’ideazione del pogrom, anche se non nei dettagli della sua organizzazione logistica di cui si occuparono direttamente Goebbels e le SA.
Le SS di Heinrich Himmler e la polizia ufficiale tedesca si lamentarono che «non erano stati informati». Nella notte appena Karl Wolff, capo dello Stato maggiore generale di Himmler venne a sapere del pogrom avvisò il suo superiore e si decise di entrare in azione «per evitare un saccheggio generalizzato». I commenti di Himmler in «un memorandum destinato ai suoi archivi» bollarono Goebbels come «cervello vuoto» e «assetato di potere» che aveva dato il via ad un’operazione in «un momento in cui la situazione in Germania è molto grave». In quello stesso memorandum il comandante delle SS riportò anche il seguente commento: «Quando ho chiesto al Führer cosa ne pensasse, ho avuto l’impressione che non sapesse niente degli avvenimenti». Hermann Göring appena fu avvisato del pogrom si recò da Hitler e apostrofò il ministro della Propaganda come «troppo irresponsabile» per non aver valutato gli effetti disastrosi di quell’iniziativa sull’economia del Reich. Lo stesso ministro dell’Economia Walther Funk, appena saputo del pogrom telefonò irritato a Goebbels e «lo apostrofò violentemente» …
I saccheggi compiuti ottenendo spesso vantaggi personali crearono diversi problemi all’interno del partito. Vi furono forti critiche in particolare per gli atti vandalici che avevano distrutto (invece di confiscare) beni patrimoniali e merci indispensabili di cui la Germania aveva bisogno, oltre a mettere le compagnie di assicurazioni tedesche in forte difficoltà, se si pensa ad esempio, che «i danni per la sola gioielleria Magraf completamente svuotata dai saccheggi erano valutabili in un milione e settecentomila reichsmark».
Lo storico Raul Hilberg, nella sua opera La distruzione degli Ebrei d’Europa, rileva che in effetti il pogrom produsse danni enormi alla Germania, i «più gravi furono le reazioni estere». Per quanto la censura tedesca si adoperasse perché non filtrassero immagini delle violenze, la notizia rimase per settimane sulle prime pagine della stampa estera. Oltre le relazioni diplomatiche ne risentirono anche i rapporti commerciali e il boicottaggio verso le forniture di ogni tipo di prodotti tedeschi «si intensificò». L’ambasciatore tedesco di Washington, scrivendo al ministro degli Esteri, descrisse il clima ostile che aveva prodotto il pogrom del 10 novembre: mentre fin a quel momento l’opinione pubblica americana era rimasta in silenzio, ora la protesta aperta si verificava fra tutti gli strati sociali, anche fra i «tedeschi americanizzati» e cosa ancor più grave che personaggi di ambienti comunisti e anche antisemiti «comincia ad allontanarsi da noi» e che quell’ostilità generalizzata aveva rivitalizzato tanto «il boicottaggio dei prodotti tedeschi che al momento, non si intravedono possibili scambi commerciali».
Hilberg fa notare che oltre a risentirne la diplomazia, fu colpito anche tutto ciò che fosse «appannaggio degli esportatori, degli esperti in armamenti, e di tutto ciò che aveva a che fare con le valute estere», con quel pogrom «per la prima volta, molti dettaglianti, grossisti e importatori si associarono nel boicottaggio» Furono annullati contratti negli Stati Uniti, Canada, Francia, Inghilterra e Jugoslavia, con un calo del 20 e fino al 30% per le esportazioni tedesche, e cosa inspiegabile per il commercio tedesco: quale ragione stava spingendo anche le imprese “ariane” all’estero a boicottare le imprese “ariane” in Germania. «Nei Paesi Bassi una delle maggiori società di Import-Export, la Stockies en Zoonen di Amsterdam, che fino ad allora aveva rappresentato marchi importanti come la Krupp, DKW, BMW, e la filiale tedesca della Ford, mise fine a tutti i suoi contratti con la Germania e preferì vendere prodotti britannici».
Sul piano interno invece i pogrom non produssero particolari problemi. Da parte della popolazione tedesca ci fu una partecipazione nulla o minima alle violenze, se si esclude la presenza di curiosi o il verificarsi di alcuni casi di saccheggio. La versione fornita dalla propaganda nazionalsocialista “di una sollevazione popolare spontanea contro gli ebrei” non fu considerata realistica dalla popolazione. D’altro lato, il clima di terrore instaurato dal regime era tale che ci furono soli rari e isolati casi di protesta contro i pogrom. Le autorità naziste ne conclusero che si sarebbe potuto procedere senza problemi all’inasprimento delle politiche antisemite.
In conseguenza del dibattito apertosi all’interno del partito, due giorni dopo il pogrom, il 12 novembre 1938, Göring indisse «una riunione che doveva valutare i danni e tentare di risolvere il problema». I partecipanti convocati furono: Goebbels ministro della Propaganda, Funk ministro dell’Economia, von Krosigk ministro delle Finanze, Reinhard Heydrich capo del servizio di sicurezza, Kurt Daluege luogotenente generale della polizia d’ordine (la principale forza di polizia della Germania nazista), Ernst Wörmann per il ministero degli Esteri, Hilgard come «rappresentante delle compagnie di assicurazioni tedesche» e «numerose altre personalità interessate». Göring incominciò il suo intervento con un tono deciso, rivendicando che l’obiettivo primario era la confisca non la distruzione dei beni ebraici.
Dopo l’introduzione di Göring si diede la parola a Hilgard, rappresentante delle assicurazioni tedesche. Le vetrine rotte affermò erano assicurate per sei milioni di reichsmark e visto che quelle più costose venivano da fornitori del Belgio «bisognava ripagarne almeno la metà in valuta estera», ma l’aspetto non a tutti noto era che quelle vetrine «appartenevano non tanto a commercianti ebrei ma ai proprietari tedeschi degli immobili». Stesso problema per i beni saccheggiati. «A titolo di esempio i danni per la sola gioielleria Magraf erano valutabili in un milione e settecentomila reichsmark», facendo notare inoltre che il totale dei danni ai soli immobili ammontava a venticinque milioni di reichsmark, mentre Heydrich aggiunse che se si valutava anche «le perdite dei beni di consumo, la diminuzione del gettito fiscale e altri svantaggi indiretti», il danno si aggirava sul centinaio di milioni visto che erano stati saccheggiati ben settemilacinquecento negozi e Daluege puntualizzò «che in molti casi i prodotti non appartenevano ai commercianti ma erano di proprietà dei grossisti tedeschi», prodotti aggiunse Hilgard che bisognava rimborsare. Fu dopo questa analisi che Göring rivolgendosi ad Heydrich disse:
«Avrei preferito aveste ucciso duecento Ebrei, invece di distruggere un simile valore»
Nella riunione furono decise le modalità con cui ripagare i danni considerando tutte le parti in causa:
Nessun compenso per i beni degli Ebrei non assicurati, non sarebbero stati ripagati. I beni loro appartenenti ed eventualmente ritrovati (pellicce, gioielli e altro), non dovevano essere restituiti, ma confiscati dallo Stato.
I beni tedeschi assicurati (vetrine e merci in stock), sarebbero state pagate dalle assicurazioni.
Per i beni degli ebrei assicurati, «le indennità dovute», sarebbero state pagate dalle assicurazioni al Reich e non agli ebrei che avevano subito il danno.
Per quanto riguarda i danni ai locali di ebrei, dovevano provvedere gli stessi proprietari ebrei alle riparazioni «per riportare la via al suo aspetto abituale» con “l’agevolazione” (tramite un ulteriore decreto), che potevano dedurre il costo di quelle riparazioni «dalla loro quota di ammenda di un miliardo di reichsmark».
Le sinagoghe distrutte, considerate da Göring come non appartenenti alla «proprietà tedesca», «lo sgombero delle macerie fu assegnato a carico delle comunità ebraiche.»
Ai possibili processi che gli Ebrei «avrebbero potuto intentare nei tribunali» ci pensò il ministero della Giustizia «decidendo per decreto che gli Ebrei di nazionalità tedesca non avevano alcun diritto a risarcimento nel complesso dei casi risultanti dagli “incidenti” dell’8-10 novembre». Rimaneva il problema degli ebrei stranieri per la violenza e i danni subiti potevano usare la via diplomatica, come gli ebrei degli Stati Uniti che avrebbero potuto «attuare delle rappresaglie», alla riunione Wörmann convenne che era un problema che meritava considerazione.
Ultima questione da risolvere, la più complicata, era quella riguardante gli atti compiuti durante il pogrom che «il codice penale considerava come crimini»: rubati beni, uccisi uomini e violentate donne. La questione fu esaminata circa due mesi dopo quella riunione (dal 13 al 26 gennaio 1939) dal ministro della Giustizia Franz Gürtner e i «giudici delle più alte corti», da lui convocati. Roland Freisler, il gerarca più importante dopo Gürtner al ministero, spiegò «che bisognava distinguere tra processi contro i membri del Partito e processi contro coloro che non lo erano». Per la seconda categoria si poteva procedere subito, senza però far tanto baccano e non istruendo processi per «fatti minori». Per gli appartenenti al Partito, come fece notare un procuratore, non si poteva processare alcun accusato se prima non fosse stato espulso dal Partito, «a meno di non perseguire le gerarchie: non c’era forse la possibilità di presumere che avessero agito in seguito ad un ordine preciso?».
Il Tribunale supremo del Partito si riunirà a febbraio del 1939 per decidere sui «trenta nazisti che avevano commesso degli “eccessi”». Ventisei di quei trenta «avevano ucciso degli Ebrei», ma nessuno di essi venne espulso dal Partito e tantomeno processato nonostante il Tribunale preventivamente avesse «rilevato nei loro confronti motivazioni “ignobili”». I restanti quattro nazisti che avevano violentato alcune donne ebree – contravvenendo così alle leggi razziali – furono invece prima espulsi dal Partito e poi affidati a «tribunali regolari» per i processi.
I pogrom del novembre 1938 rimasero un caso unico in Germania. Nell’immediato, la conclusione delle autorità naziste fu l’emanazione di una serie di provvedimenti legislativi che senza più dar spazio a incontrollati episodi di violenza accelerassero il processo di espulsione della popolazione ebraica dalla vita economica e sociale della Germania e ne sequestrassero sistematicamente le ricchezze e le proprietà, favorendo la loro emigrazione.
Le intimidazioni e i provvedimenti legislativi sortirono il loro effetto. Nel 1925 c’erano 564.378 ebrei in Germania, nel maggio 1939 dopo Kristallnacht il loro numero era sceso a 213.390 e continuerà a scendere fino a 164.000 unità nell’ottobre 1941, quando le frontiere saranno definitivamente chiuse per l’espatrio. Molti di più avrebbero lasciato il Terzo Reich se solo il resto del mondo si fosse dimostrato più generoso verso i profughi ebrei.
Negli anni di attuazione della soluzione finale, altri pogrom vennero organizzati dai nazisti e i loro alleati (anche di più sanguinosi, come il pogrom di Leopoli e il pogrom di Jedwabne in Polonia, o il pogrom di Iași in Romania). Essi tuttavia furono limitati ai paesi dell’Europa dell’est occupata dove i sentimenti antisemiti erano più radicati tra le popolazioni locali e furono coscientemente programmati solo come forma iniziale di intimidazione e terrore, che “giustificasse” l’istituzione di ghetti e arresti di massa degli oppositori. Al posto dei pogrom, le autorità naziste preferirono seguire una linea diversa, che desse al genocidio uno svolgimento più ordinato ed efficace e garantisse uno sfruttamento più razionale delle proprietà delle vittime (vestiti, case, gioielli, ecc.), che non era nel loro interesse che andassero distrutti o dispersi in disordini incontrollati. Nei territori controllati dal Terzo Reich durante la seconda guerra mondiale, la popolazione di “razza” ebraica fu discriminata e umiliata pubblicamente e segregata dalla popolazione “ariana” con leggi e regolamenti, e i loro beni sistematicamente confiscati, e quindi ufficialmente “espulsa per essere rilocata all’est”. Le uccisioni (specie di anziani, donne e bambini) furono limitate il più possibile all’interno dei lager, dei ghetti o dei campi di sterminio, o compiute in luoghi isolati, lontani da sguardi indiscreti. Nelle intenzioni di coloro che furono responsabili dell’Olocausto, il genocidio dell’intera popolazione ebraica d’Europa sarebbe dovuto avvenire senza dare troppo nell’occhio.